Geopolitica di Google

Il caso Google in Cina è un piccolo buco della serratura attraverso il
quale si può sbirciare in una nuova dimensione geopolitica nella quale
le regole sono ignote, i rapporti di forza sono tutti da valutare e i
confini tra pace e guerra appaiono confusi.

A leggere le cronache
del confronto tra il governo cinese e l'azienda fondata da Sergey Brin
e Larry Page vien voglia di chiedersi: chi sta vincendo? Ma nessuna
risposta può essere soddisfacente fintantoché non si stabilisce qual è
la partita. È un confronto tra democrazia e autoritarismo, libertà e
censura? È un gioco per il softpower nel mondo? È una questione di
affari?

Le risposte che si leggono nei fatti cambiano significato
a seconda del punto di vista. Google aveva perduto in Occidente la sua
verginità di "azienda che non fa del male" proprio accettando qualche
anno fa di scendere a compromessi con le leggi cinesi. Ma da qualche
mese tenta di recuperarla. Dopo aver lamentato le incursioni di hacker
filo governativi nella posta elettronica – su Gmail – di attivisti per
la libertà di espressione in Cina, ha iniziato una lunga trattativa con
le autorità destinata al fallimento e, dunque, sfociata nel tentativo
più furbo che efficace di ieri: reindirizzare le ricerche sul motore di
Google dalla Cina verso il servizio libero da censure che l'azienda
offre a Hong Kong.

Il governo Usa, e il segretario di stato Hillary Clinton in
particolare, ha accompagnato Google in tutto il tormentato percorso,
cogliendo l'occasione per sottilineare a ogni passaggio un punto chiave
della sua politica estera: la libertà di espressione su internet è un
principio fondamentale e irrinunciabile per gli Stati Uniti.

Il
governo cinese tenta d'imporre il suo ordine interpretativo, opposto a
quello americano, sintetizzato dal portavoce del ministero degli
Esteri, Qin Gang: la vicenda di Google deve restare commerciale e non
diventare politica. Ci sono delle regole, in Cina, e vanno rispettate
da tutte le aziende che vogliono fare affari nella Repubblica Popolare.

Il progetto di sviluppo armonioso della Cina ammette la critica
costruttiva, ripetono gli ideologi cinesi, ma non la discussione
distruttiva: e in effetti internet per la popolazione cinese è
diventata una soluzione per proporre miglioramenti e critiche
focalizzate su particolari aspetti dell'organizzazione sociale ma non
certo per alimentare forme di opposizione al sistema.Ma gli
americani incalzano. E non solo con le dichiarazioni di principio di
Clinton. Nel dicembre scorso, la Casa Bianca si è dotata di un
coordinatore della cybersicurezza nazionale, Howard Schmidt. E in
questi giorni, il Senato e il Dipartimento di stato stanno cercando a
loro volta di creare una figura di "ambasciatore" destinato a
coordinare la politica estera americana nella dimensione internettiana.

La scommessa "ideologica" di Clinton, il potere attribuito a Howard
Schmidt e, appunto, la definizione di una dimensione internettiana
della politica estera americana dimostrano se non altro la complessità
e il peso strategico che internet ha raggiunto dal punto di vista
geopolitico.

Su internet, in effetti, si è svilupato un ambiente
operativo per sostenere le cause più nobili, per diffondere
informazione e conoscenza, ma anche per attuare sofisticatissime
attività di spionaggio, terrorismo, controinformazione. I protagonisti
sono certamente gli stati, autoritari e democratici, nelle loro varie e
non sempre coordinate articolazioni, insieme a multinazionali,
organizzazioni di attivisti, bande criminali, reti terroristiche. Un
contesto tecno-caotico, le cui vicende restano per la maggior parte del
tempo oscure e che i fatti, come quello di Google, s'incaricano
talvolta d'illuminare parzialmente.Ma per ora i fatti non
rispondono alla domanda: chi vince? Clinton non cessa di sottolineare
l'importanza liberatoria di internet in paesi come l'Iran e la
Birmania. Ma, come osserva Evgeny Morozov attraverso il suo blog su
Foreign Policy, internet è anche un'arma di controllo e repressione
usata dai regimi autoritari contro i dissidenti.

Intanto, le bande
mercenarie di superhacker capaci di attaccare piattaforme come Twitter
e stati come l'Estonia restano largamente fuori controllo. E i "siti
dell'odio" integralista e razzista censiti dal Simon Wiesenthal Center
sono ormai 11.500 – eramo 4mila nel 2004 – ma «la crescita delle
attività avviene come in ogni altro settore sui network sociali»,
osserva Abraham Cooper che si è occupato della ricerca.

Secondo Howard Schmidt, il cosiddetto zar della cybersicurezza
americana, non vince nessuno, perché quella che si sta svolgendo su
internet non è una guerra. «La metafora è sbagliata», dice. Anche
perché era la metafora preferita di Michael McConnell, direttore dei
servizi d'intelligence per l'amministrzione di George W. Bush: un uomo
che sosteneva che gli Stati Uniti stavano perdendo la cyberguerra e che
per cambiare il risultato dovevano riprogettare internet per
trasformarla in qualcosa di controllabile.

Al contrario, Schmidt,
come il presidente Barack Obama, crede che internet vada lasciata
com'è, libera e innovativa, aggiungendo criteri di sicurezza per
specifiche attività, come quelle finanziarie e governative, ma senza
introdurre distruttive forme di controllo. «Internet è un ambiente nel
quale non ci possono essere vincitori. Ma se si elimina la libertà
tutti certamente perdono».

Accettando la dinamica internettiana, i
leader politici e i capi delle multinazionali devono accettare anche
che il contesto nel quale operano sia continuamente messo in
discussione. Tensioni continue sulle regole relative a privacy,
copyright, libertà d'espressione, resteranno a lungo all'ordine del
giorno. E un'escalation di tecnologie per la sicurezza contro le
tecnologie per la criminalità va messa in conto.Ma la realtà è che
internet anche a livello geopolitico e geoeconomico ha risposto al
bisogno di gestire meglio le dinamiche reali che la globalizzazione
aveva concretamente attivato: una nuova competizione fra territori,
lingue, legislazioni, sistemi istituzionali, forme di collaborazione e
condivisione delle informazioni capaci di accelerare lo sviluppo
nell'epoca della conoscenza.

Almeno su un punto ha certamente
ragione, Sergey Brin, cofondatore di Google, intervistato dal New York
Times: «La storia non è ancora finita».