Piccolo spazio pubblicità

Piccolo, spazio, pubblicità. La vecchia canzone con le bollicine di
Vasco resta artisticamente attuale. Ma allude a un’esperienza del
passato: non c’è più un piccolo spazio per la pubblicità. Nei media
digitali, in effetti, c’è uno spazio "virtualmente" infinito. Con
conseguenze piuttosto vaste. Cambia la scarsità delle risorse, le
sorgenti del valore, probabilmente la stessa struttura della domanda e
dell’offerta. Nuovi attori si fanno largo, come Google e, ora, Apple.
Si cercano nuove metriche, per i click del mouse sul computer e per i
"tap" di chi tocca gli schermi di iPhone e iPad. Si immaginano nuovi
scenari.

Per
le aziende che si pubblicizzano con video distribuiti su YouTube,
giochi sponsorizzati su Facebook, link a pagamento su Google, jingle
sui podcast, banner di ogni forma su ogni tipo di pagina web, mail, sms
e altro, l’unica risorsa che non manca è lo spazio. Quello che vale,
per quelle aziende, è un contesto che favorisca la diffusione dei loro
messaggi.

Certo, il tempo degli spot e i moduli delle inserzioni
restano limitati in televisione e sui giornali, anche per legge. E
questa dimensione pubblicitaria continuerà a giocare il suo ruolo. Ma
sulla rete, dove le pagine si moltiplicano con costi marginali
limitati, la scarsità che conta non è tanto definita dai confini dei
singoli prodotti editoriali, ma piuttosto dall’attenzione, dal tempo,
dalle relazioni tra le persone cui i messaggi pubblicitari sono diretti
e che li citano nel loro passaparola. Il valore dei prodotti
informativi ed editoriali che ospitano le inserzioni non scompare,
naturalmente, ma si ridefinisce. Diventa meno fisico e più concettuale:
la capacità di alimentare l’attenzione e di servire il tempo del
pubblico, offrendo messaggi credibili, utili e divertenti per la
conversazione. E il più possibile personalizzati.

Il caso di scuola
è chiaramente il successo di Google: che ha aggiunto al servizio del
suo motore di ricerca il sistema della raccolta pubblicitaria inventato
a suo tempo da Overture, per cui le inserzioni appaiono solo in
funzione del flusso di attenzione già dimostrato dagli utenti che
cercano informazioni e svolgono le loro attività, offrendo messaggi
commerciali su temi connessi. A questo caso, da una decina di giorni si
è aggiunto il sistema degli iAd di Apple: una piattaforma di raccolta e
distribuzione di spot interattivi da inserire nelle applicazioni per
l’iPhone e, a partire dall’autunno, l’iPad. Google e Apple si
propongono come nuove concessionarie di pubblicità che invece di
vendere spazi vendono collegamenti tra i messaggi pubblicitari e i
flussi delle attività che gli utenti svolgono sui media digitali.
Google è riuscita a sconvolgere il mondo delle concessionarie sulla
rete internet fissa, Apple tenta di inserirsi nel mondo delle
concessionarie sulla rete internet mobile. In entrambi i casi queste
piattaforme promettono una forte personalizzazione delle inserzioni in
base alle abitudini e alle curiosità rivelate dai consumatori, delle
quali sono a conoscenza grazie al fatto che i loro server possono
registrare ogni movimento degli utenti. Offrono regole relativamente
chiare per la distribuzione dei guadagni tra le piattaforme stesse e
chi realizza informazione o software. E sono relativamente agnostiche
sulla filiera a monte delle concessionarie: dai centri media alle
agenzie creative. Casomai richiedono una certa competenza tecnica, un
orientamento aperto alla ricerca di nuove forme di creatività, adatte
alla rete digitale, fissa o mobile. E, soprattutto nel caso di iAd,
investimenti anche nel software. I due contendenti sono in
competizione, anche tecnologica, e puntano a governarnare i rispettivi
ecosistemi.

Per gli editori e le concessionarie tradizionali la
sfida è aggiornare la strategia al nuovo scenario tecnologico. Puntando
sulla capacità dei loro prodotti e dei loro venditori di servire più
sapientemente di qualunque piattaforma informatica le esigenze dei
clienti e degli inserzionisti. Ma tenendo conto dell’insegnamento
essenziale che si deduce dalla nuova forma del mercato: la scarsità è
passata da ciò che era governato dall’offerta (lo spazio fisico) a ciò
che caratterizza la domanda (l’attenzione e il tempo). Quindi non
possono più puntare a imporre i loro servizi. Devono tentare ogni
strada per farseli adottare dal pubblico. Che ha ora molta più
influenza sul mercato.

La prossima fase d’innovazione potrebbe
essere spinta dagli editori e dagli sviluppatori di applicazioni.
Perché, in fondo, resta la scarsità di buone idee creative e di "mondi
di senso" che le valorizzino. Alla fine, anche nella pubblicità, vince
ancora chi governa lo storytelling. E non si vede perché questo ruolo
dovrebbe restare, come oggi sembra, appannaggio delle piattaforme
tecnologiche.