Una settimana di polemiche sul cosiddetto adeguamento del contributo per copia privata – che ha dimostrato la confusione che pervade l’analisi dell’economia digitale – è culminata nella bizzarra impennata della Siae contro la Apple che ha riversato tutto l’aumento, più l’Iva, sul prezzo finale ai consumatori.
La critica è bizzarra perché, come si legge nello stesso sito della Siae: «La Copia Privata è il compenso che si applica, tramite una royalty sui supporti vergini fonografici o audiovisivi in cambio della possibilità di effettuare registrazioni di opere protette dal diritto d’autore. In questo modo ognuno può effettuare una copia con grande risparmio rispetto all’acquisto di un altro originale». Il risparmio avvantaggia il consumatore, dice la Siae: e dunque perché dovrebbe essere la Apple a pagarlo mantenendo invariato il prezzo finale e assorbendo il contributo in una riduzione del suo profitto? Se la copia privata è una possibilità offerta (ma obbligatoriamente tassata) al consumatore, sarebbe logico che a pagarla sia proprio il consumatore, non la Apple. Perché dunque la Siae supponeva il contrario?
Perché il consumatore, forse, non ha colto il vantaggio che gli è stato offerto. E non ha aumentato le copie private. Il contributo per uno smartphone è salito da 0,9 euro a una tariffa tra i 3 e i 4,8 euro (un aumento tra il 200 e il 450%): ma è difficile che le copie private crescano in tali percentuali, visto che le vendite dei brani da eventualmente copiare diminuiscono da 11 anni e solo nel primo semestre del 2014 si sono riprese, dice la Fimi, soprattutto per l’aumento dello streaming, mentre il download continua a diminuire (e non si fa copia privata dello streaming ma casomai del download).
Il consumatore non sembra interessato alla copia privata. E la Apple non c’entra. Chi dunque la deve pagare? La Siae si è detta disponibile a farsi carico di trovare iPhone a basso prezzo. È una soluzione, se si riesce a smettere di ridere.
Articolo pubblicato su Nòva il 27 luglio 2014