Sharing, design dei servizi, piattaforme private e oltre

bici
Il primo servizio di bike sharing è del 1965, racconta il Sustainable Cities Collective. Le bici abbandonate, ad Amsterdam, venivano ridipinte di bianco e lasciate a disposizione dei cittadini. L’idea è andata avanti per un po’, poi i vandali e i ladri l’hanno avuta vinta sugli onesti e il servizio ha chiuso. È riemerso come progetto artistico a St. Louis nel 2003. L’anno dopo non c’erano nel mondo che 13 servizi di bike sharing. Poi il boom: dal 2004 il bike sharing è cresciuto del 6.477 per cento ed è presente oggi in quasi 900 città con quasi un milione di bici: calcola Transport Reviews che ha un impatto sensibile sul traffico a motore in città.
Un successo passato per la trasformazione del servizio pensata da grandi designer. Ora le bici si pagano, un poco, sono curate con attenzione, l’identità degli utenti è nota, i loro spostamenti sono tracciati e i trasgressori sono puniti. Non è più un puro sharing: si direbbe piuttosto un noleggio comodo, adatto all’epoca dell’accesso più che all’era dell’empatia.
Il fenomeno è  contemporaneo alla privatizzazione dei servizi di networking sociale sulla rete (anche Facebook nasce nel 2004) e non è scollegato dall’emergere di altre forme di applicazione del design dei servizi, come Uber e AirBnb. Anche queste funzionano in base alla fiducia e al rispetto degli altri, ma questi valori sono sostenuti da chiare modalità incentivanti e sanzionanti, operando in una logica di profitto più che di condivisione.
In effetti, ai cittadini non importa se questi servizi sono comunitari o privati più di quanto a Deng Xiaoping importasse se il “gatto sia bianco o nero”: per tutti conta che prenda i topi. Ma le spallate innovative non hanno sempre conseguenze armoniche e i sistemi sociali e giuridici stanno reagendo, come insegna il caso di Uber.
Di fronte a queste osservazioni ci si domanda se sia stata detta l’ultima parola o se nasceranno piattaforme capaci di imparare la gradevolezza del design di questi servizi e, insieme,  recuperare valori come privacy e condivisione razionale dei beni comuni. L’esperienza insegna che l’ultima parola non è mai l’ultima.
Articolo pubblicato su Nòva24 il 6 settembre 2015