Digital Tax: stavolta è diverso. Quasi

Ci si stupisce del fatto che la proposta di “web tax” formulata un paio d’anni fa sia stata affossata da un grande coro di proteste, mentre l’idea della cosiddetta “digital tax” dell’attuale governo generi meno reazioni. Le ipotesi formulate per spiegare la differenza sono diverse.
C’è chi dice che i giudizi dei “difensori della rete” che avevano contrastato la vecchia proposta sono distorti perché in fondo sono favorevoli al governo attuale. Altri osservano che potrebbero essere esausti per le tante battaglie che hanno condotto in questi anni.
Ma la realtà è più semplice. Perché le differenze sono abbastanza rilevanti. Il premier ha probabilmente sbagliato a definire “digital tax” quella che si sta discutendo: si tratta secondo i proponenti, tra i quali c’è Stefano Quintarelli, di una norma che dovrebbe concentrarsi sulla lotta all’elusione nelle transazioni immateriali internazionali consentita dalle regole attuali. Inoltre, non riguarda solo la pubblicità – e i suoi campioni – ma ogni transazione, comprese quelle del gambling online. Non è più un’iniziativa isolata ma si inserisce in un dibattito internazionale, impostato dall’Ocse, e peraltro è stata preceduta da una normativa britannica simile. A proposito, il governo italiano ha presentato la proposta in  modo abile, perché non ha annunciato un’iniziativa unilaterale immediata, per attendere il tempo ragionevolmente necessario all’Ocse e alla Commissione Europea per costruire un’idea condivista e avviare un insieme di trattative per arrivare a una soluzione globale, o almeno continentale.
Certo è che il problema di merito non è semplice. Le aziende coinvolte hanno saputo hackerare il sistema fiscale internazionale senza infrangere le leggi. Alcuni stati stanno tentando di rispondere modificando le regole. Altri hanno interesse a lavorare in direzione diversa. La vicenda si annuncia lunga. E se l’Italia dovesse prendere una decisione autonoma, non avrebbe la certezza di riuscire ad aumentare le entrate fiscali senza rischiare di rallentare ulteriormente gli investimenti nell’economia digitale.
Articolo apparso su Nòva il 20 settembre 2015