La via italiana esiste?

Industria 4.0: è un’idea della cultura tedesca. La logica delle piattaforme che softwarizzano i processi economici è propria della cultura americana. Il digitale è il sostrato comune a queste impostazioni e l’Italia non primeggia, anche se il potenziale è gigantesco. Molte ricerche – da McKinsey ad Accenture – dicono che se puntasse di più e meglio sul digitale, l’Italia crescerebbe. Ma nell’ultimo lustro ha perso terreno: classifiche digitali, manifattura, occupazione. Eppure le sue aziende esportatrici sono cresciute anche negli anni più neri. È possibile che esista un’interpretazione italiana dell’attuale passaggio della storia economica? Sì. Ma soprattutto è necessario, come mostra un’indagine realizzata dalla X Commissione della Camera: la via italiana non deve solo colmare i ritardi culturali e infrastrutturali ma anche valorizzare gli specifici punti di forza italiani. Quali? Si tratta di dimensioni economiche adatte all’epoca della conoscenza, nella quale il valore si concentra sull’immateriale: la ricerca, il design, l’immagine, la storia o il “saper fare” artigiano. Le imprese culturali sono decisive in questo ecosistema. La principale, la Rai, si prepara al rinnovo del contratto di servizio e della concessione. Un passaggio formale o strategico? A giudicare dai risultati della consultazione realizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico, al quale hanno partecipato più di 11mila persone, la risposta è chiara: il servizio pubblico della Rai deve produrre educazione e cultura, connettendo l’Italia al mondo, la tradizione alla contemporaneità, la nazione alle dimensioni locali. Non sono chiacchiere ma strategie. Pullulano le iniziative che lo dimostrano. Per esempio, la candidatura del Comune di Settimo Torinese a “capitale della cultura”: dice che i beni culturali non sono solo i monumenti ma gli elementi vivi della convivenza civile e della generazione di valore. L’Italia è piena di esempi. Non li pensa nell’insieme, anche se alimentano la coesione e la qualità, dice Symbola. Purché la cultura sia innovazione, non rendita.
Articolo pubblicato su Nòva il 3 luglio 2016