La guerra dei droni

Secondo un’inchiesta del Guardian, nel 2011, ogni quattro giorni, un drone guidato a distanza da un agente della Cia, ha colpito un obiettivo in Somalia, Yemen o Pakistan. Da allora, l’uso degli aerei armati senza pilota non ha fatto che crescere. E non è più soltanto una prerogativa americana. Secondo Haaretz, una settimana fa, la difesa israeliana ha lanciato due Patriot contro un drone che era partito dalla Siria e aveva sorvolato le alture del Golan: non è riuscita ad abbatterlo (alcune schegge dei Patriot sono cadute su un kibbutz ferendo un abitante). Quindi lo ha attaccato con un aereo che ha lanciato un missile aria-aria, ma il drone è sfuggito ancora. E mentre la DeNA pensa di introdurre i taxi che si guidano da soli per le olimpiadi giapponesi del 2020, il Qatar si vuole dotare di droni per proteggersi in vista dei campionati del mondo di calcio del 2022, scrive l’ex colonnello Eugenio Roscini Vitali. La separazione del soldato dall’azione di guerra è un fenomeno da interpretare con attenzione, suggerisce Grégoire Chamayou, filosofo, autore di “Théorie du drone”. L’ufficiale americano, David Deptula, ha detto alla Cnn: «Il vero vantaggio dei sistemi aerei senza pilota consiste nel dimostrare potere senza dimostrare vulnerabilità». Un po’ il contrario di quello che fanno i terroristi suicidi che dimostrano il loro potere senza dimostrare alcun timore dell’estrema vulnerabilità terrena. C’è chi ha visto nei camion che si guidano da soli, dopo la tragedia di Nizza, l’incubo del terrorismo robotico. Tutto questo sfida le capacità di comprensione per chi vede una relazione tra la violenza e il rischio di compierla. La violenza senza rischio si autoalimenta. Qualunque politica che non tenga conto delle stupidità parallele del populismo e della tecnocrazia fa pensare che tutto questo prepari un’immane tragedia. All’epoca della guerra fredda gli umani conoscevano i rischi delle armi nucleari e hanno sviluppato una cultura capace di limitarle con successo. Oggi occorre un passaggio analogo. Un po’ più difficile.
Articolo pubblicato su Nòva il 24 luglio 2016