Perché mai un convegno dal titolo "Le parole dello schermo", a Bologna ieri, è diventato un dibattito sulla pratica di parlar male della televisione? Claudio Petruccioli, presidente Rai, si è spinto a dire: «La tv non è il Ground Zero dove la cultura muore». Il critico Aldo Grasso ha detto: «Quando parlano della tv molti pensano a "Domenica in", mentre io penso a "Lost"». E Gian Arturo Ferrari, capo dei libri della Mondadori, ha osservato: «Si vede la cultura come un sistema filosofico plotiniano, dove al vertice c’è l’Essere e tutto il resto ne discende per emanazione. Deteriorandosi progressivamente». Parole di difesa della tv, pronunciate contro l’idea diffusa che esista una gerarchia culturale, nella quale al vertice c’è una letteratura nobile e al fondo una scadente programmazione televisiva.
Ma sono parole facili. Che non rispondono alla domanda preoccupata di una società invasa dalla tv commerciale che, come ha detto il giornalista Giovanni Minoli qualche mese fa, ha trasformato i cittadini in consumatori e i consumatori in elettori. In un’epoca di relativismo, non è difficile rigettare ogni pensiero che vede l’assoluto in un libro e la banalità altrove. Ma il relativismo non è la fine della storia del pensiero.
E allora?
Se la cultura non è più quel sistema di valori che può dichiarare che cosa è in alto e che cosa è in basso, se la cultura è intesa come il concetto chiave dell’antropologia, allora "Domenica in", "Il Grande Fratello" e "Lost" hanno tutti lo stesso valore. Sono segni di una condizione antropologica da conoscere per leggere una società in prospettiva. Ma possiamo fermarci a questo? Possiamo fermarci al rispetto delle culture e delle etnie senza poter affermare il bisogno di innovazione o di approfondimento?
In realtà, a sua volta la cultura in senso antropologico è un concetto che può evolvere considerandola nel contesto delle considerazioni che si fanno in ecologia. Se un elemento inquinante riduce la biodiversità in un ecosistema, tutte le specie sono a rischio. E se in una cultura un elemento riduce la diversità delle idee, inquinando il pensiero, tutti i pensieri sono a rischio. Una programmazione televisiva che, pur di svolgere il suo ruolo di cassa di risonanza dei messaggi pubblicitari, accetta di rivolgersi al minimo comun denominatore animale di ciascun essere umano, finisce col concentrarsi su quello appiattendo ogni sfumatura e ogni differenza culturale in un grande minestrone di idee confuse. Il suo effetto è più simile a quello di una droga che a quello di un alimento. Possiamo negare che questo è quanto è effettivamente avvenuto negli ultimi venticinque anni in Italia?
Ma è vero che la tv non è condannata a essere solo quello. Criticarne l’abuso non significa criticare il mezzo. Se alla fine il pubblico abbandona la tv per andare mediaticamente altrove, una ragione di deve pur essere. E una conseguenza, chi programma la tv, la deve pur trarre. Ci può essere la reazione di chi abbassa ulteriormente gli investimenti nei contenuti e innalza lo spazio pubblicitario per accontentare la fame di soldi della borsa. Ma ci può essere chi alza la qualità per trattenere il pubblico e trovare nuovi spettatori. Alla fine è facile sostenere che la qualità non è data dal mezzo ma da chi lo interpreta.
Il fatto è che ci si abbevera di tutto. Il mitico Sandrone Dazieri ha detto che lui legge gli altri scrittori e guarda la tv dei serial americani. Esistono storie umanamente sincere e tecnicamente ben costruite che girano in tv, come esiste letteratura di poco approfondimento. Ed è chiaro che non è il mezzo a definire se il contenuto vale o non vale in termini di qualità. E’ chi lo pensa, chi lo scrive e chi lo vende.
E allora? Allora penso che una società drogata non può trovare la forza di guardare avanti e costruire
un futuro migliore. Tende piuttosto ad aspettare passivamente che si compia il suo
destino. Ma il fatto è che la società italiana non è completamente drogata. Il fatto è che anche nella società italiana c’è chi dimostra di avere toccato con mano la necessità di aprire gli occhi e di liberarsi dei pensieri facili. C’è chi vuole approfondimento e diversità di idee. C’è chi si è liberato. E sono queste persone, quelle che determineranno il successo dei programmi e dei contenuti del futuro. Di fronte a queste persone, i prodotti editoriali insinceri finiranno per essere bocciati e quelli sinceri, qualunque mezzo li metta in circolazione, saranno premiati. La chiave, oggi, è puntare tutto sulla qualità. Gli editori vincenti sono quelli che guardano al lungo termine. Una cultura non è fatta di gerarchie culturali: ma un ecosistema culturale che sappia difendersi dai fattori inquinanti è più sano.