Il destino delle azioni Facebook è da tempo separato dal valore d’uso della piattaforma di social network. Come anche il Sole 24 Ore ha spesso osservato, il prezzo pagato per le azioni di Facebook al momento della quotazione ha portato la capitalizzazione dell’azienda a un livello quasi cento volte più elevato dell’utile. Un paragone: la Apple ha una capitalizzazione di circa 13 volte l’utile.
La costruzione della storia finanziaria che ha portato i risparmiatori a credere in un prezzo tanto elevato è un tipico fenomeno di pubbliche relazioni e speculazione. Diverse notizie precedenti alla quotazione hanno reso plausibile quel prezzo, dall’entrata di Goldman Sachs in Facebook a un prezzo che valutava l’azienda 50 miliardi all’acquisto di Instagram da parte di Facebook per 1 miliardo (se una piattaforma per lo scambio di foto con 30 milioni di utenti vale un miliardo, il social network con quasi un miliardo di utenti poteva ben valere 100 miliardi). Risultato: hanno guadagnato i soci di Facebook prima dell’Ipo, hanno perso, per ora, i risparmiatori.
Questi fatti ricordano l’epoca della bolla degli anni 1998-2000, con quotazioni esasperate ed effimere. In proposito, va detto che la distanza tra valore finanziario e valore d’uso, in quel caso, è stata verificata sia nel periodo della bolla, quando il primo saliva e il secondo era piuttosto limitato, sia nel periodo successivo, quando il secondo saliva e il primo era crollato.
La storia della Facebook reale continuerà con i suoi tempi, molto diversi da quelli della Facebook finanziaria. La costruzione di un modello di business basato non sulla pubblicità ma sul reddito derivante dal business delle applicazioni che girano sul social network e che vendono servizi o software è una possibiltà che, se si materializzerà, porterà l’utile a un livello molto più elevato. Ma la finanza non aveva tempo di aspettare.
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