Connessi, contaminati, cosmopoliti. Gli esseri umani dell’epoca della rete stanno sperimentando una condizione inedita dal punto di vista dell’accessibilità delle informazioni, delle persone, dei luoghi di acculturazione. Ma questo non significa che si comprendano meglio tra loro. Internet non una macchina che garantisce l’emergere automatico di una grande cultura cosmopolita. Come combattere il rischio che gli esseri umani continuino a proiettare sul nuovo scenario globale le loro antiche divisioni e incomprensioni? Chi cerca risposte, può leggere con passione il gran libro di Ethan Zuckerman, Rewire. Cosmopoliti digitali nell’era della globalità (pubblicato nel 2013 e appena uscito nella traduzione italiana di Bernardo Parrella per Egea): un percorso straordinario nelle dinamiche culturali che si stanno sviluppando nella contemporaneità. E, soprattutto, un progetto civile.
«In tutto il mondo si sente la pressione delle difficoltà economiche. Soprattutto i giovani hanno difficoltà ovunque a trovare lavoro» dice Zuckerman al telefono mentre arriva al suo ufficio al MediaLab dell’Mit. «Quando sono in crisi gli umani tendono a rinchiudersi. Lo vediamo negli Stati Uniti, come voi in Italia. Ma nello stesso tempo stiamo diventando interconnessi e non vediamo un futuro senza internazionalizzazione. Il passaggio chiave è questo: mentre l’economia ci lega agli altri paesi, la cultura non si apre automaticamente: internet è solo un’opportunità».
Mentre l’attenzione degli osservatori della rete si lascia attrarre dalle mille novità che riserva l’incessante produzione di nuovi strumenti di connessione, Zuckerman invita a cercare l’innovazione importante. Che per lui ha a che fare con la possibilità di portare fino in fondo la promessa internettiana di connettere le persone, portandola però a un nuovo livello: la mera possibilità di collegarsi non significa comprendersi.
Zuckerman è una sorta di antropologo del mondo digitale, impegnato oggi al centro per i Civic Media del MediaLab guidato da Joi Ito, si è dato da fare in Ghana e altri paesi per insegnare le virtù della digitalizzazione ai programmatori locali e, da Harvard, ha contribuito a fondare Global Voices: un’iniziativa pionieristica pensata per valorizzare i blog di autori che si trovano in paesi cui l’Occidente concede poca attenzione.
«Siamo in un periodo d’oro per le possibilità di connessione. Possiamo parlare gratis con persone che si trovano in ogni parte del mondo. Possiamo sentirci vicini a tutti. Ma alla fine, come dimostrano i dati sulla lettura delle notizie internazionali o sulle relazioni che si sviluppano sui social network restiamo chiusi nel nostro ambiente culturale tradizionale. Una visione globale va ancora costruita».
La visione globale della quale c’è bisogno si sintetizza per Zuckerman nella nozione di cosmopolitismo. Per definirla, Zuckerman si affida alle ricerche di Kwame Anthony Appiah, un filosofo ghanese-statunitense che ha lavorato sulla cultura Ashanti, una popolazione del Ghana meridionale. «Il cosmopolitismo, sostiene Appiah, implica ben più che imparare a tollerare chi professa valori e concezioni differenti dalle nostre» riporta Zuckerman nel suo libro: «Il cosmopolita rivela due qualità primarie. Dimostra genuino interesse per le concezioni e le pratiche altrui, impegnandosi a comprendere, se non anche ad accettare o adottare, modi di vivere differenti dal nostro».
«Un tempo pensavamo che il cosmopolitismo fosse un carattere riservato a poche persone. A un’élite. Oggi riguarda molta gente. Ma questa cultura va sviluppata consapevolmente. Non cresce da sola. Occorre un progetto. E ci possiamo lavorare». Ne vale la pena.
Articolo pubblicato su Nòva. Domani Ethan Zuckerman è a Perugia al Festival del giornalismo. Vedi anche: Rewire. Il nuovo libro di Ethan Zuckerman è un piacere per i lettori cosmopoliti