La cultura dell’innovazione richiede un’antropologia raffinata. Gli innovatori coltivano una visione e sperimentano ciò che immaginano, dunque sono disponibili all’errore, purché serva di insegnamento per ricominciare, con tenacia e pragmatismo. Gestiscono il processo documentando il percorso e così arricchiscono la loro impresa, profit o non profit, di conoscenza. Soprattutto lo fanno in modo aperto, collaborativo: sono contenti del successo degli altri innovatori perché moltiplica la conoscenza tutti, come ha detto Marco Gay, presidente dei giovani di Confindustria e nuovo socio e membro del cda di Digital Magics, alla prima tappa del Viaggio nell’Italia che innova, a Bologna. In qualche modo, tutto questo fa assomigliare il processo delle imprese che innovano al metodo scientifico.
Non è l’epoca post-industriale, è l’industria nell’economia della conoscenza. Un’economia nella quale il valore si concentra sull’immateriale: la ricerca e il design, la narrazione e l’organizzazione dell’informazione. Le tecnologie digitali hanno superato la fase in cui esplodevano nella creazione della nuova economia internettiana e hanno aumentato la loro portata mettendosi al servizio della produzione di beni e servizi – con i big data e la cloud, con la sensorisitica e l’intelligenza artificiale – cambiando la fabbrica, la logistica, la vendita. E moltiplicando le possibilità di ogni settore, dal biomedicale alla ceramica, dall’illuminazione alla produzione di latte, dall’automazione industriale alla progettazione di nuovi materiali, come hanno dimostrato le storie, magnifiche, degli imprenditori che hanno offerto la loro testimonianza all’incontro bolognese: Chiesi, Bio-on, Focchi, InterPuls, Hpe, Open Biomedical Initiative, Im3d, Cosberg, Dallara, Neri, System Group, Riba Composites.
Il punto è che la valorizzazione delle loro capacità innovative è tanto più significativa quanto meglio corrisposta dall’ecosistema nel quale operano. Che è internazionale per missione e territoriale per vocazione. Il che dunque impone che la conoscenza sviluppata in azienda sia riconosciuta e compresa all’esterno. Le aziende che offrono servizi abilitanti che erano presenti a Bologna, come – ciascuna a modo suo – Vodafone, Cisco, Talent Garden, Canon e la stessa Ey, hanno dimostrato di avere chiaro come il loro successo sia simbiotico con il successo delle aziende che innovano i prodotti. E le scuole, come in dimensioni diverse la Bologna Business School o l’istituto Silvio D’Arzo, diventano a loro volta moltiplicatori del sapere e abilitatori delle connessioni tra i diversi soggetti in gioco. In un contesto nel quale la policy può assumersi soprattutto il ruolo di facilitatore, anche se con i servizi offerti dal settore pubblico locale, come quello sanitario, può influire sul processo innovativo anche aumentando la sua disponibilità all’acquisto di innovazione dalle imprese territorio e non solo. L’innovazione italiana “nonostante il contesto” esiste. Nella speranza che trascini il resto.
articolo pubblicato sul Sole il 1° dicembre 2015