Comunque vada a finire, la vicenda che oppone la Apple all’Fbi lascia i cittadini con un’emergente preoccupazione: l’accesso ai dati personali registrati in rete o sugli strumenti digitali è troppo concentrato e rischia di diventare un generatore di potere enorme e poco equilibrato. Non c’è bisogno di entrare nei particolari legali del processo, anche perché dopo la richiesta di appello da parte della Apple, i fatti attendono il lavoro dei giudici. Ma qualche certezza c’è. Se vince l’Fbi, l’amministrazione e la magistratura americane avranno il potere di imporre alle aziende qualunque operazione atta ad accedere ai dati personali degli utenti. Se vince la Apple, le multinazionali della tecnologia saranno indotte nella tentazione di sviluppare una dimensione autonoma e indipendente dal controllo pubblico. Qualcuno invoca una legge che risolva il problema. Altri suggeriscono di aspettare la Corte Suprema. Ma è chiaro che un maggiore equilibrio del potere non può essere raggiunto solo da una legge: richiede il ritorno a un’architettura internettiana distribuita. Anche perché i problemi attuali sono piccoli a confronto con quelli che si potrebbero verificare in un futuro nel quale l’intelligenza artificiale si applicasse a un sistema di dati molto concentrato e proprietario o anche assolutamente controllato dal potere politico. Joi Ito, direttore del Media Lab all’Mit di Cambridge, Massachusetts, è un sostenitore di una forma distribuita della rete. Che è probabilmente più adatta a far emergere non tanto un’intelligenza artificiale efficiente e centralizzata, ma piuttosto un’intelligenza estesa che emerga dalla coevoluzione organica di persone e macchine in rete. Se proprio qualcuno a Washington volesse legiferare a proposito del potere dell’Fbi sulla tecnologia, farebbe meglio a chiedere un parere ai saggi studiosi del Media Lab: il loro lavoro è in fondo una ricerca di consapevolezza dedicata al futuro.
Articolo pubblicato su Nòva il 28 febbraio 2016