Nei giorni scorsi Google ha risposto alla Commissione europea sulle accuse relative a presunte azioni anticompetitive. Le accuse e le risposte sono un pantano interpretativo. Entrambe le parti puntano a migliorare la qualità del servizio ai consumatori, favorendo la concorrenza e l’innovazione: ma hanno ricette opposte. Da tempo ci si domanda se l’evoluzione tecnologica richieda nuove regole antitrust. Una ventina d’anni fa, Scott McNealy, capo della Sun, combatteva contro la Microsoft, azienda allora dominante nell’informatica. Ma al giornalista che gli domandava se considerasse necessario cambiare le regole antitrust per il mondo digitale rispose di no. Il che non ha aiutato la sua azienda a non perdere la partita. In effetti, anni dopo la Microsoft è stata sottoposta a una graticola antitrust – in America e in Europa – che non l’ha messa in grande difficoltà ma di certo l’ha ostacolata. Gli argomenti dell’accusa di allora erano in un certo senso simili a quelli che oggi vengono opposti a Google: abuso della posizione dominante in un mercato per conquistarne un altro. E le risposte anche: migliorare la qualità del prodotto non è vietato e favorisce gli utenti. La questione è complessa. Nel mondo digitale, la tecnologia che conquista un vantaggio tende ad accumulare risorse e sbaragliare le altre. È l’effetto-rete: ciò che aveva spinto lo studioso di network Bernardo Huberman a intitolare un suo paper sulla concorrenza in rete: “Chi vince piglia tutto”. Ma, aggiungeva, questo avviene in una categoria: chi vince nei motori di ricerca non vince necessariamente nei social network, come Google e Facebook sanno bene. Quindi la difficoltà delle accuse e delle difese sui temi di antitrust si concentra nella definizione delle categorie del mercato. Qual è il confine nel quale Google compete legalmente e dove comincia l’abuso? È una questione di definizioni che dipendono da fattori spesso soggettivi e passeggeri. Ma come si possono reprimere gli abusi senza definizioni precise? Forse non va cambiata la legge antitrust. Ma un adattamento servirebbe.
Articolo pubblicato su Nòva il 6 novembre 2016