In un quadro complesso come quello attuale, le Pmi italiane devono trovare una propria via per approcciare il modello della fabbrica digitale. Seguendo l’esempio delle aziende giapponesi nel dopoguerra, è necessario fare molto con poco e finanziare i passi successivi con i risultati ottenuti strada facendo. La ricetta italiana di Industry 4.0 potrebbe essere questa: approccio creativo al miglioramento dell’efficienza supportato da solidi processi (es. gestione scientifica del lavoro), un modello organizzativo partecipativo, attenzione alla formazione e alla tecnologia, apertura ai giovani talenti digitali, tanta determinazione manageriale e un buon piano di programma di trasformazione digitale. Certo, il contesto italiano non è favorevole allo sviluppo delle Pmi – pensiamo a dati come l’età media degli asset produttivi, la più elevata in Europa (quasi 13 anni contro una media europea inferiore ai 6 anni); la percentuale dei laureati, del 26%, dai 10 ai 15 punti inferiore ai Paesi nord europei; il grado di connettività dell’Italia in Europa, maggiore solo di quello della Croazia – gli ostacoli da superare sono tanti, possiamo citare l’accesso al credito per finanziare gli investimenti, i livelli di redditività e la propensione al rischio degli imprenditori; tuttavia, il nostro governo sta assumendo un ruolo determinante nella trasformazione e crescita delle imprese, mettendo a loro disposizione un piano di incentivi fiscali (iper- e super-ammortamenti) per gli asset Industry 4.0. Adeguarsi al cambiamento e vincere, così, la sfida 4.0 è possibile: serve soltanto grande capacità di lavorare sull’organizzazione e sulla standardizzazione del lavoro, tanta attenzione ai dettagli e capacità di lavorare in squadra, in modo trasversale rispetto ai tradizionali modelli organizzativi funzionali.
Gabriele Caragnano
Fondazione Ergo-MTM Italia, PwC Italy
Caro Caragnano
stiamo cominciando a comprendere che, se il ruolo del governo nell’economia produttiva è soprattutto quello di creare le precondizioni per uno sviluppo imprenditoriale orientato all’innovazione, allora le conseguenze di medio termine delle policy sono le più importanti. In effetti, il quadro operativo attuale è profondamente segnato dalla disattenzione che nella maggior parte dei primi dieci anni del secolo i governi hanno dedicato alle infrastrutture digitali e alla cultura dell’innovazione. Gli effetti delle policy dei governi che si sono succeduti dal 2012 potranno essere avvertiti soltanto nei prossimi anni.
Certo, alcune decisioni sono pensate per avere conseguenze immediate: il super-iper-ammortamento si sente subito nei bilanci e nelle decisioni d’acquisto di macchinari connessi. Ma la modernizzazione di un sistema complesso come il mondo produttivo italiano richiede tempo, dedizione, pazienza, visione e una certa forma di stabilità del contesto. In questo senso, sarebbe importante che la leadership politica si sforzasse di pensare con lungimiranza, proprio per avere una qualche probabilità di sintonizzare le aspettative e i risultati, rilegittimando per esempio gli investimenti in ricerca e istruzione, colpevolmente peggiorati negli ultimi tempi ma che restano fondamentali anche se i loro frutti si raccolgono nel tempo.
Nel mezzo è il coraggio
Sono d’accordo con quello che ha scritto Luca De Biase in risposta alla lettera di Federico Barilli. Ma vorrei aggiungere un altro punto: la scarsa lungimiranza che spesso impedisce a molte aziende italiane di comprendere il notevole impatto che l’innovazione ha sul lungo (o anche medio) periodo. Infatti se è vero che da un lato è sempre estremamente difficile riuscire a prevedere l’impatto di un’innovazione sul medio/lungo termine, dall’altro è incauto (per non dire stupido) scegliere di non adottarla “solo” perché non si riesce a prevederne con ragionevole certezza l’impatto. Il punto è: in assenza di informazioni la cosa più intelligente da fare non è ridurre al minimo i rischi (presenti sempre, in tutte le innovazioni) scegliendo di non innovare mai, ma ridurli invece scegliendo di innovare anche in assenza di informazioni ma senza esagerare (con i rischi e con gli investimenti). E invece pare che molte aziende italiane siano convinte che esistano solo i due estremi: o non si rischia “nulla”, e non si innova, o si deve rischiare “tutto”, e si investe in qualsiasi tipo di innovazione. Esistono tuttavia moltissime altre soluzioni intermedie che consentirebbero di rischiare relativamente poco per non perdere opportunità eccezionalmente importanti sul medio/lungo periodo! Non si deve per forza essere solo o completamente avversi al rischio, o pionieri coraggiosi fino a sfiorare l’incoscienza: stavolta sarebbe invece proprio il caso di affermare che “in medio stat virtus”.
Marco Cavicchioli
Rubrica pubblicata sul Sole 24 ore il 10 giugno 2017