Al Forum dell’Ocse che si è svolto a Parigi la settimana appena trascorsa, sono state centrali le questioni legate alla trasformazione digitale dell’economia. E tra le questioni digitali ha spopolato il tema delle fake news e della difficoltà di gestire l’informazione in rete. L’Ocse è apparentemente ben consapevole del fatto che una istituzione che fonda la sua stessa esistenza sulla possibilità di una policy basata sui fatti e le argomentazioni scientificamente accurate rischia di perdere senso in un contesto che interpreti ogni informazione e qualunque riflessione – documentata o meno – in una semplice opinione. Vincent Hendricks, direttore del Center for Information and Bubble Studies all’Università di Copenhagen, ha mostrato come l’abbondanza di informazione e la scarsità di attenzione nel contesto dei media digitali abbiano affidato agli algoritmi delle principali piattaforme il compito di gestire l’accesso alle conoscenze con la conseguenza di favorire l’aggregazione delle persone che si piacciono in echo-chambers nelle quali si scambiano prevalentemente opinioni che confermano quello che pensano le persone che le frequentano, gratificandole e abbassando il loro senso critico. E, ha aggiunto Matthew d’Ancona, autore di Post-truth, riducendo la probabilità che il factchecking faccia loro cambiare idea. Quanto questo dipenda dai media digitali o dalle trasformazioni della società è totalmente dubbio. È chiaro che le bufale esistevano anche prima di internet e che alcune televisioni hanno avuto l’effetto di favorire comportamenti conformisti e acritici. Ma è anche chiaro che le attuali piattaforme hanno a loro volta delle conseguenze. La reazione tuttavia non può essere quella di sperare in un ritorno indietro dell’orologio della storia. L’unica strada è quella che conduce in avanti: considerando anche il fatto che i difetti delle piattaforme attuali offrono l’opportunità di costruire piattaforme future migliori.
Articolo pubblicato su Nòva l’11 giugno 2017