Caro Luca
qualche giorno fa è apparsa nella mia home di Facebook una mappa dell’Europa che mostrava la capillarità delle strade costruite dagli antichi romani. Un fitto reticolato che per secoli ha connesso Istanbul con la Spagna, il Marocco con L’Egitto, la Sicilia con il Nord Europa. Gli antichi romani avevano, infatti, capito come il miglior modo per conquistare un territorio dopo un conflitto militare fosse integrarlo con il nuovo Stato. La distanza, infatti, con i luoghi del potere poteva farli sentire alieni nel nuovo sistema sociale. Le strade romane diventavano così il vero mezzo di conquista, uno strumento che continuava a operare silenziosamente – ma in modo estremamente efficace – una volta che il metallo delle spade aveva smesso di sibilare nei campi di battaglia.
Non è un caso se si dice che tutte le strade portano a Roma. Tuttavia, ormai anestetizzati dall’utilizzo di questa affermazione, credo che ne abbiamo smarrito il significato più profondo. È vero che tutte le strade conducono a Roma, ma è pur vero che tutte quelle strade hanno un inizio: partono da luoghi periferici e, nel loro viaggio fino a Roma, uniscono persone che non si sarebbero mai incontrate, merci che gli abitanti di un paese non avrebbero mai visto; veicolano lingue, accenti e inflessioni nuove, sono attraversate da uomini e donne con vestiti, carnagione, abitudini alimentari differenti, che pascolano animali sconosciuti a chi si trova dal capo opposto di quello stesso selciato.
Oggi le infrastrutture non hanno perso la forza che avevano in passato, anzi. Con le tecnologie che sempre più repentinamente trasformano il futuro in presente, strade, ponti, ferrovie si trasformano in strumenti in grado di interagire con chi le utilizza, fornendo dati, facendo previsioni, stimolando interconnessioni. Le infrastrutture però non sono solo fisiche. Le possibilità di interconnessione si moltiplicano esponenzialmente, aumentando a dismisura i luoghi di passaggio, di incontro e di scambio.
Più si è connessi più si è vicini al centro delle cose e questa prospettiva attenua la percezione di essere cittadini di serie B se si vive in periferie e borgate digitali. Tuttavia, non è facile gestire le “nuove” strade perché non sono una serie di pietre che si affiancano per chilometri e neppure colate di asfalto, piloni di cemento armato e guardrail, ma codici e protocolli che veicolano informazioni, codici e protocolli che non solo devono essere monitorati e manutenuti, ma che per la loro natura ibrida devono anche essere interpretati. Nei codici e nei protocolli sfuma infatti la differenza tra struttura e sovrastruttura di marxiana memoria, proponendo al cittadino un “testo” che non è sempre di facile lettura e utilizzo.
Come fino a qualche decennio fa avevamo bisogno d’ingegneri che progettassero infrastrutture in grado di connettere agevolmente merci e persone e politologi che interpretassero i fatti del mondo per fornire ai cittadini letture critiche di avvenimenti e processi sociali, ora abbiamo la necessità di trovare nuove figure in grado di agire su codici e spiegare protocolli con forti ricadute sul nostro modo di vivere quotidiano.
Li possiamo chiamare ingegneri sociali?
Fabrizio Sammarco | Amministratore Delegato
ItaliaCamp S.r.l.
Caro Fabrizio
il parallelo tra le strade fisiche e le infrastrutture digitali è molto più della metafora resa famosa da Al Gore, l’ex vice presidente americano, che parlò di autostrade dell’informazione. Con la crescita della complessità della popolazione umana, tutte le infrastrutture fondamentali diventano progressivamente un insieme unitario che serve alla connessione delle società nelle loro molteplici dimensioni. L’evoluzione sociale, del resto, avviene attraverso l’esplorazione delle innovazioni possibili. Ed è chiaro che elementi essenziali di questa esplorazione emergono attraverso gli scambi multidimensionali – di merci, persone e idee – che si sviluppano tra le società diverse e che sono abilitati dalle infrastrutture. La forma evolutiva che emerge dipende in parte non marginale proprio dalla forma di quelle infrastrutture: che sono progettate in base a ipotesi implicite sugli scambi che dovranno abilitare e che dunque in qualche misura li condizionano. L’idea degli “ingegneri sociali” – suppongo – non serve a indicare la prospettiva di una riprogettazione per via tecnica della società, ma al contrario a sottolineare l’opportunità che chi progetta le infrastrutture della connessione sia profondamente consapevole delle conseguenze sociali delle sue scelte.
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 12 agosto 2017