Il progresso della tecnologia digitale è avvenuto attraverso il dialogo tra il motore elettronico che ha accelerato la velocità delle apparecchiature secondo la legge di Moore e le soluzioni di volta in volta trovate per l’interfaccia tra le macchine e gli umani. Indubbiamente, la Apple ha avuto una grande parte nella storia dell’interfaccia. L’idea cui Steve Jobs ha dedicato la vita era che il computer deve poter essere usato da chiunque, senza fare ricorso al manuale. E la facilità d’uso è aumentata progressivamente, a partire dall’utilizzo del mouse e delle icone inventate allo Xerox Parc ma popolarizzate dal Macintosh nel 1984 per arrivare all’iPhone del 2007 che ha creato il concetto di smartphone ed è diventato una sorta di protesi del cervello avverando la visione del cofondatore della Apple. Ebbene: qualche giorno fa, presentando i nuovi prodotti, Tim Cook ha affermato che l’iPhoneX è destinato a influenzare i prossimi dieci anni, come l’iPhone originale ha influenzato i dieci anni appena trascorsi. Una frase troppo ambiziosa per i fatti che Cook ha effettivamente presentato, ma sulla quale vale la pena di riflettere, vista la storia di innovazioni della sua azienda. Il sistema di riconoscimento facciale può essere una di queste innovazioni? Probabilmente sì. Consiste in un insieme di telecamere, sensori, chip e software per il machine learning il cui potenziale non si esaurisce nella funzione di sbloccare il telefono senza toccarlo e garantendo privacy e identità del proprietario. Fa pensare a nuove forme di interazione – con i gesti, le espressioni, la lettura delle condizioni di luce – che potrebbe portare lontano e trasformare il telefono in una sorta di telecomando gestuale per diversi generi di relazione con il mondo digitale. Compresa la realtà aumentata alla quale i lettori di Nòva sono abituati se leggono col telefono gli arricchimenti pubblicati in queste pagine. L’estetica dell’interfaccia, alla fine, è funzione. E linguaggio.
Articolo pubblicato su Nòva il 17 settembre 2017