Nell’accelerata, necessaria, affrettata maturazione della consapevolezza italiana intorno al tema dell’innovazione, l’idea di startup è una cartina di tornasole di una certa rilevanza. Mentre fanno esperienza sul tema, diventato più attuale dal 2012, gli operatori si accorgono che l’argomento è particolarmente istruttivo. Le conclusioni finora raggiunte sono diverse. Eccone alcune. Primo, fare una startup può essere una perdita di tempo economica ma non lo è quasi mai dal punto di vista formativo. Secondo, fare una startup avendo in mente soltanto di venderla per ottenere un capital gain è un’assicurazione per l’insuccesso, specialmente in Italia. Terzo, fare una startup significa avere in mente di costruire una grande azienda partendo dal nulla, nella convinzione che potrà inventare un mercato e crescere nel tempo. Quarto, senza le startup il sistema delle imprese tradizionali perde occasioni fondamentali per innovare. Quinto, senza una più grande e competente finanza per le startup il sistema italiano ne soffoca la crescita. Gli insegnamenti che si possono trarre dai primi anni di esperienza nel mondo delle startup ovviamente sono molti di più e andrebbero articolati in modo più approfondito. Ma una convinzione dovrebbe essere più diffusa in un paese fatto prevalentemente di piccole imprese spesso straordinarie per capacità di esportazione e costruzione di nicchie di mercato, ma che si finanziano con il fatturato, che sono più forti dal punto di vista imprenditoriale che manageriale, che hanno una capacità di innovazione informale ma non necessariamente sufficiente a vincere le sfide sofisticate che la contemporaneità sta lanciando. Lo dimostra anche la ricerca realizzata da ItaliaStartup, resa pubblica in questi giorni, dalla quale si evince che la dimensione delle startup è la variabile che spiega meglio la soddisfazione di imprenditori, collaboratori e finanziatori. Le startup innovative non sono piccole imprese, ma grandi aziende appena nate.
Articolo pubblicato su Nòva il 24 settembre 2017