La quantità di danni provocati da malintenzionati, criminali e disinformatori che usano i social network per attuare i loro disegni è tale da giustificare un’accesa discussione intorno a ciò che occorre fare per rimediare. Non giustifica però le posizioni estreme: i conservatori che finalmente vedono l’opportunità per bloccare la crescita di internet, uno strumento che si è rivelato capace di accompagnare una trasformazione dirompente in molti contesti economici e politici, mettendo in difficoltà i vecchi poteri; gli ultraliberisti che immaginano che tutto vada lasciato alla capacità di autoregolamentazione del mercato, come se esistesse un mercato senza regole antitrust che lo salvaguardino; i tecnocratici ideologicamente convinti che la prossima versione della tecnologia risolverà i problemi lasciati aperti dalla precedente. L’argomento è stato ravviato la settimana scorsa dalle audizioni di Facebook, Twitter e Google al Senato americano in merito all’uso che i russi hanno fatto delle piattaforme online per interferire sulle elezioni presidenziali del 2016. L’Economist ha giustamente ampliato l’argomento alla relazione tra democrazia e media digitali, affrontato la questione con grande equilibrio. Gli argomenti dei regolamentatori non sono certo privi di valore, anche se si dividono tra coloro che immaginano di regolare le piattaforme come editori e coloro che pensano di trattarle come utility. I contrari all’intervento statale si preoccupano non senza motivo che gli effetti delle regole possano essere peggiori dei problemi che tentano di risolvere, specialmente se dovessero diventare forme di censura. I tecnofanatici pensano che le piattaforme troveranno il modo di bloccare le false notizie introducendo nuovi accorgimenti tecnici magari basati sull’intelligenza artificiale e un po’ di lavoro umano in più. A tutte queste posizioni, però, manca una visione d’insieme di ampiezza pari alla vastità delle conseguenze di internet sulla società, l’economia, la cultura. Ogni intervento sulla rete ha conseguenze dirette e indirette, non sempre desiderabili. Come in un ecosistema, tutto è connesso a tutto, e i fenomeni coevolvono in modo poco prevedibile e certamente non linearmente meccanico. Sicché emerge l’importanza dell’approccio proposto dall’ecologia dei media. Non è una metafora: la mediasfera funziona davvero come un ecosistema e tra l’altro oggi si è fusa nell’ambiente percepito dalla società umana. Può essere trattata soltanto con un approccio ecologico. Sicché ci si rende conto che ogni intervento legittimo ha un suo senso, ma i suoi effetti sono definiti dai valori di fondo che conducono chi lo progetta e lo realizza. Se l’ecosistema mediatico internettiano è un bene comune della conoscenza, quei valori devono essere orientati a salvaguardare e sviluppare il risultato utile alla comunità. Alla fine ci si rende conto che i problemi di qualità dell’informazione che si manifestano sulle piattaforme digitali di oggi sono le esternalità negative di un sistema economico basato sullo sfruttamento dell’attenzione per il mercato pubblicitario. Una correzione può arrivare soltanto da una crescita generalizzata della consapevolezza intorno ai benefici effetti di un approccio ecologista ai media.
Articolo pubblicato su Nòva il 5 novembre 2017