Si può risolvere la crisi di fiducia che ha colpito Facebook dopo lo scandalo Cambridge Analitica? Il caso dei dati personali di 50 milioni di persone che sono stati lasciati andare fuori dal social network per essere utilizzati a fini politici ha aperto la strada a una serie di rivelazioni che mostrano come la cultura aziendale di Facebook fosse pervasa da una grave superficialità sul tema della privacy. E l’ultima rivelazione, uscita su Buzzfeed, aggiunge un tratto di particolare crudezza all’impressione acquisita: il vice presidente Andrew Bosworth, nel 2016, aveva diffuso una nota in azienda per dire che c’è una “brutta verità” nella cultura aziendale di Facebook, e cioè che la piattaforma è fatta per connettere sempre più gente e che qualunque cosa consenta di farlo è considerata “di fatto buona” anche quando le persone utilizzano gli strumenti messi a disposizione da Facebook per commettere azioni riprovevoli. Insomma, la tecnologia non è responsabile dell’utilizzo che se ne fa: un’idea che appare sempre meno accettabile, man mano che la tecnologia digitale gioca sempre più il ruolo di abilitatore e regolatore dei comportamenti delle persone. A maggior ragione in tema di privacy: se la legge impone alla piattaforma di proteggere i dati personali e se il social network promette di fare di tutto per garantire la privacy degli utenti, la responsabilità esiste eccome. Queste notizie minano la fiducia in Facebook. L’azienda si può risollevare: se la Volskwagen è riuscita a reagire può farlo anche Facebook. Ma occorre una virata forte e chiara. Altrimenti ci sarà un lento ma inesorabile distacco emotivo tra gli utenti e la piattaforma. Che rischia di contagiare pure l’immagine delle altre aziende che raccolgono grandi moli di dati: cosa che di fatto sta avvenendo. La cultura aziendale però non cambia velocemente. E quindi c’è spazio per alternative che siano meno superficiali in tema di diritti umani. Su internet, ogni problema è un’opportunità.
Articolo pubblicato su Nòva il 1° aprile 2018