Qualche volta, una nuova regola fa sognare come se fosse un discorso visionario. Non sempre questa impressione è il riflesso di una sorta di fascinazione per la politica. Talvolta avviene che una regola è davvero in grado di svelare la possibilità di uno scenario che si riteneva poco realistico. Potrebbe essere il caso del nuovo diritto alla “portabilità dei dati” introdotto in Europa con la General Data Protection Regulation (Gdpr) entrata in vigore il 25 maggio?
In effetti, quella norma stabilisce che i cittadini hanno diritto di scaricare i dati personali raccolti su di loro dalle piattaforme esistenti, in un formato comunemente utilizzato, e portarli in un’altra piattaforma anche concorrente. Anche del tutto nuova e fatta apposta per dare un senso nuovo all’utilizzo di quei dati. Significa che i dati personali ritornano a essere posseduti dalle persone alle quali si riferiscono e che le nuove piattaforme che entrano sul mercato possono arricchirsi – se gli utenti lo vogliono – con i dati personali già registrati sulle vecchie piattaforme. Insomma, il lock-in esercitato dalle vecchie piattaforme si fa meno stringente. In teoria.
E in pratica? «È presto per dirlo» osserva Antonello Soro, presidente dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali e vicepresidente del gruppo di lavoro che riunisce le autorità dei paesi europei. «Lo scopo della portabilità dei dati è proprio quello di aprire il mercato e mettere in gioco delle alternative. Google e Facebook sono pensati come monopolisti dei loro settori tecnologici specifici, i motori di ricerca e i social network, ma in realtà hanno conseguenze enormi su altri settori, come la pubblicità. Gli effetti distorsivi sulla concorrenza dell’azione di questi giganti non sono ancora percepiti abbastanza. E uno dei motivi che consentono a questi giganti di avere tanto potere sul mondo della pubblicità è proprio il possesso esclusivo di dati personali. L’attuazione della portabilità dei dati potrebbe rimettere in gioco altri soggetti. Ma il processo comporterà un tempo relativamente lungo di adattamento: l’interoperabilità dei dati è più facile dove già esiste concorrenza, come nel settore delle banche, ma è più difficile dove prevale il lock-in dei giganti, come nei motori di ricerca o nei social network».
Se ne parla troppo poco, dicono ormai molti osservatori. Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft sono aziende molto amate, molto ricche e, recentemente, molto discusse. Il potere di mercato delle grandi piattaforme digitali è diventato oggetto di un dibattito sempre più critico. Mentre i consumatori non cessano di ricorrere con grande entusiasmo ai servizi delle piattaforme e mentre l’uso distorto di quegli strumenti emerge attraverso scandali, come nel caso di Cambridge Analitica e Facebook, i regolatori si trovano di fronte a dilemmi piuttosto intricati. Meglio lasciare alle forze del capitalismo la scelta su ciò che si fa e ciò che non si fa, oppure è bene che le autorità politiche entrino in gioco? Sono destinate ad arrivare sempre tardi o possono anticipare i fenomeni? In Europa, il tema si pone a livello di protezione dei dati personali, di politiche antitrust, di politiche fiscali. In America, dove la protezione dei dati personali è meno importante che al di qua dell’Atlantico, anche le politiche pro-competitive sono poco apprezzate, a giudicare per esempio la decisione di abolire la net neutrality. Il rischio che la discussione sia dominata dai pregiudizi o dagli interessi di bottega, in una materia tanto complessa, è elevato. Luigi Zingales, intervenendo a State of the Net, a Trieste, si è domandato esattamente questo: «dobbiamo regolare le piattaforme?». E in proposito ha potuto attingere ai risultati di una grande conferenza sulle politiche anti-trust organizzata alla università di Chicago. Che alla fine ha mostrato una prevalenza di indicazioni favorevoli all’introduzione di regole per salvaguardare la concorrenza nel mondo delle piattaforme digitali: tendono a creare monopoli organicamente, per la logica dell’effetto-rete, hanno effetti distorsivi sull’innovatività del sistema se le piattaforme abusano della posizione dominante o acquisiscono le loro potenziali alternative e soprattutto se riescono a impedire l’interoperabilità. Una strada per rimediare è proprio quella di forzare una sorta di interoperabilità dei dati. «Per valutare la Gdpr» commenta Zingales «occorre rendersi conto che i problemi sono spesso nei dettagli. Vedremo all’atto pratico se funziona o se il diritto dovrebbe essere accompagnato da incentivi per attuare la portabilità dei dati. Ma di certo può essere un passo nella giusta direzione».
Insomma. Con la Gdpr, il lock-in esercitato dalle vecchie piattaforme si fa meno stringente. In teoria. In pratica, come mostrano gli esempi riportati in questa pagina, dipende dalla capacità di innovatori, imprenditori, programmatori, designer, di vedere e cogliere l’opportunità.
Articolo pubblicato su Nòva il 17 giugno 2018