Ne parlava Frank Piller al Politecnico di Milano. Il professore di tecnologia e innovazione alla Rheinisch-Westfälische Technische Hochschule di Aachen raccontava di come la Adidas abbia lavorato a lungo intorno al tema di connettere le sue scarpe al mondo digitale. Un progetto di qualche anno fa era basato sull’aggiunta di chip e sensori alla calzatura per consentirle di registrare diversi dati, compresa la pressione del piede sul terreno, la direzione e la lunghezza della corsa, e altro. Gli ingegneri della casa tedesca erano arrivati a creare un prodotto straordinario, del quale parlarono tutti i giornali: ma costava 600 dollari e si vendeva a 200. Oggi la Adidas, dice Piller, ha compreso che il mondo digitale si affronta pensando all’utente e al valore che gli si offre prima che alla tecnologia che si mette nei prodotti. E sta raggiungendo il successo con servizi digitali in rete più facili da comprendere e sensoristica destinata a servizi altrimenti impossibili: come la palla da calcio con i sensori che collegata a un’app consente di migliorare l’allenamento e la tecnica. È una storia molto istruttiva. Per un paese che, come l’Italia, produce oggetti di qualità ma non si è molto occupato del mondo digitale, la sfida è trovare la strada di portare nella contemporaneità il valore tradizionale: creando prodotti o servizi impossibili senza la tecnologia più avanzata ma tali che – per prezzo e valore percepito – possano affascinare i potenziali clienti. Mettere tecnologia nei prodotti tanto per fare non porta da nessuna parte. Ebbene. Una delle frontiere attuali è nell’intelligenza artificiale che si sviluppa avendo a disposizione grandi moli di dati. L’industria italiana se ne sta occupando per questioni per le quali dispone dei dati: per esempio, le macchine industriali producono dati a sufficienza per i programmi di deep learning che servono alla manutenzione predittiva, come mostra per esempio l’esperienza di un produttore di servizi di questo tipo come la Mipu di Salò, fondata da Giulia Beccarin. Insomma, le premesse ci sono nel B2B, dove le aziende hanno dati. Ma le imprese italiane hanno a disposizione i dati che servono per aggiungere valore ai prodotti per i consumatori? Generalizzare è sbagliato, ma se ci si confronta con i dati sui comportamenti della popolazione che sono a disposizione di alcuni giganti digitali cinesi e americani, gli italiani – e gli europei – sembrano indietro. Anche se le capacità tecniche non mancano, in Europa e in Italia scarseggiano i dati. Non ci sono grandi concentratori di dati: ma ci potrebbero essere? Forse – lo si è detto a più riprese anche su queste colonne – utilizzando il diritto alla portabilità dei dati introdotto dalla Gdpr, si possono immaginare nuovi utilizzi per i dati raccolti dalle piattaforme esistenti. Per fare nuove piattaforme. Oppure, più modestamente e forse velocemente, si potrebbe cominciare con semplici aggregatori di dati, nei quali i cittadini facciano confluire i loro dati raccolti dalle piattaforme esistenti per metterli a disposizione dell’industria nazionale, una volta garantita la privacy. Chi lo potrebbe fare? Per gli editori, gestire l’informazione è una missione e un business. E costruire aggregatori di dati per la business community è un’opportunità che, mentre tentano con qualche difficoltà di far valere la loro ricchezza tradizionale a livello normativo, gli editori potrebbero cogliere per sviluppare una nuova ricchezza.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore l’8 luglio 2018