Francesca Bria è entrata dalla porta principale nel comune di Barcellona. Sale le scalinate tra gli archi gotici e mostra le sale gialle e rosse del fascinoso palazzo medievale, attraversa i corridoi dell’edificio nuovo e si ferma sulla terrazza mozzafiato da dove si vedono le prospettive dell’incessante trasformazione della città, tra le vie strette dal loro passato e la futuristica classicità della Sagrada Familia, tra gli spazi oltre le ramblas disegnati sul mare per fare posto alla gioia di vivere e i quadrati dagli angoli smussati delle strade produttive dell’alveare interno, mentre l’orizzonte si allunga tra il mare e le montagne. Vista – e raccontata – dall’alto, Barcellona è un ecosistema ricco di diversità, armonico nelle forme e nelle funzioni. Che Bria descrive abitato da una comunità che si trasforma, restando sé stessa; che cerca la sua sovranità, restando aperta; che sviluppa la sua strategia digitale, coltivando la partecipazione fisica dei cittadini nelle piazze.
Barcellona non è un luogo comune. È un progetto tecnico-umanistico di modernizzazione, interpretato da una squadra di leader usciti dalla crisi, emersi dall’indignazione e votati alla ripresa civile, sotto la guida di Ada Colau, eletta sindaca nel 2015 sull’onda della sua battaglia per il diritto alla casa e contro le disuguaglianze, in alternativa all’indipendentismo. In quella squadra, appunto, è stata chiamata a lavorare Francesca Bria. Economista italiana, umanista cosmopolita e, se così si può dire, ecologista della tecnologia.
«Ero a Londra. Lavoravo a Nesta, l’agenzia per l’innovazione sociale britannica, con Geoff Mulgan». Basta il nome, in effetti, a qualificare quell’esperienza: il suo ex capo è un’autorità per tutto quanto riguarda i modelli operativi e le riflessioni teoriche intorno alla trasformazione sociale nell’epoca digitale. Tra l’altro è appena uscito in Italia il suo “Big Mind. L’intelligenza collettiva che può cambiare il mondo” (Codice 2018; versione originale: Princeton University Press 2017). E Nesta è una delle organizzazioni più prestigiose per le attività che servono a comprendere e sperimentare percorsi di modernizzazione partecipata, tecnologicamente avanzata e umanisticamente avvertita. «Gli ho raccontato dell’offerta che avevo ricevuto dal comune di Barcellona. Diventare “Chief Technology and Digital Innovation Officer”, l’equivalente di un’assessora all’innovazione della città. Mi ha risposto che dovevo andare: per mettere in pratica quello che avevo studiato per anni». Era il 2016. Bria stava lavorando a diversi progetti. Tra questi, coordinava D-Cent, un progetto europeo per la creazione di strumenti digitali, con architettura decentralizzata, software open source, privacy-by-design, per la democrazia partecipata e lo sviluppo delle capacità di emancipazione economica.
«Certo, sono stata chiamata per portare a Barcellona quella filosofia. La città vuole rigenerare la sua democrazia. Qui la partecipazione democratica è molto forte. Le piazze e i luoghi di aggregazione sono sempre ricchi di discussioni politiche, di associazioni che si occupano del quartiere, che fanno proposte urbanistiche e socio-economiche. La tecnologia può aiutare lo sviluppo e la forza di questa attività di base modernizzando gli strumenti. E la città può essere protagonista dell’innovazione, non semplice utente: ritrovando una sovranità tecnologica». Come in D-Cent, costruendo piattaforme che siano basate su sistemi di autenticazione aperti e distribuiti, nelle quali i cittadini controllino pienamente i loro dati, basati su standard open source e sulle quali le attività di tutti siano incentivate con modelli premianti trasparenti, controllabili, affidabili anche grazie al sapiente utilizzo della blockchain. In questo modo, la discussione dei cittadini, le loro deliberazioni e le forme di partecipazione alle decisioni, sono attività che producono un valore che resta alla comunità e non viene sequestrato da qualche piattaforma internazionale i cui scopi sono tutto salvo che civici.
L’intera città diventa una piattaforma abilitante, per l’innovazione sociale, politica, economica. «Abbiamo i fab-lab per la sperimentazione e la formazione alle nuove forme della manifattura. Abbiamo gli incubatori per la crescita delle startup. Abbiamo i centri di connessione tra le aziende tradizionali e le più piccole imprese innovative. Nel quadro di una storia chiarissima: Barcellona lavora sempre cercando di alimentare l’ecosistema pubblico-privato, puntando sulle tecnologie più avanzate, senza lesinare le risorse finanziarie, purché i fondi servano alla crescita del valore comune». Come a Barcelona Activa, che fa mentoring, incubazione di imprese, formazione, su temi come l’intelligenza artificiale, l’economia satellitare, i droni, e così via, nell’intento dichiarato di aumentare l’occupazione nei settori di frontiera in una chiave inclusiva, solidale, plurale.
Già. Le istanze umanistiche ritornano costantemente nel racconto tecno-politico di Barcellona. E Francesca Bria ci si trova benissimo. Figlia di uno psicanalista e di una ballerina e ginnasta olimpionica, a sua volta campionessa italiana di ginnastica ritmica, Bria non cessa di ritrovare nella sua giovinezza romana una fonte costante di ispirazione e indipendenza di giudizio dalle derive tecno-centriche. La qualità culturale dei mentori che ha incontrato nella vita, dal musicista Giuseppe Sinopoli all’economista “cosmopolitico” Daniele Archibugi e al gruppo di design dei servizi di Ezio Manzini, oltre che appunto Geoff Mulgan, spiega e ispira il suo impegno innovatore umanisticamente sensibile. Non per nulla, tra le figure che l’hanno guidata c’è stato Stefano Rodotà, il giurista di riferimento per tutti coloro che hanno cercato una guida per affrontare la trasformazione tecnologica nella chiave dello sviluppo dei diritti umani. Ed è stato proprio organizzando un convegno con Stefano Rodotà che Francesca Bria ha invitato e dunque incontrato il futuro marito, Evgeny Morozov: intellettuale originalissimo, critico attento e colto della contemporaneità, storico della tecnologia. Con lui, tra l’altro, ha scritto un testo per l’ufficio newyorkese della Rosa Luxemburg Stiftung, intitolato “Rethinking the smart city. Democratizing urban tecnology” che è diventato libro (la traduzione è in corso di pubblicazione per Codice). Il libro serve a decodificare l’ideologia tecnocratica della “smart city”, vista come una proposta centrata sulle esigenze dei venditori di tecnogia più che su quelle dei cittadini; e nello stesso tempo indica la strada per soddisfare il diritto a una città digitalmente avanzata, semplice da usare, aperta all’innovazione e, soprattutto, tecnologicamente sovrana. Non per nulla, a Barcellona, Bria ha introdotto un principio straordinario: i fornitori di servizi alla città devono mettere in comune i dati sui cittadini che raccolgono, nel rispetto ovviamente della privacy, in modo che possano essere pienamente controllati dai cittadini e riusati da diverse piattaforme senza inutili duplicazioni e così trasformando quei dati in una conoscenza abilitante per la nascita di nuove imprese, invece che lasciarli diventare fonte di lock-in a favore delle piattaforme esistenti.
Si forma così un “commons” della conoscenza digitale. I dati registrati sono un bene comune che a favore della comunità. E che la comunità alimenta e manutiene. La città democratica che Barcellona vuole essere e che Francesca Bria contribuisce a progettare e implementare, dunque, è costruita con una logica di co-design, nella quale il comune coltiva una leadership culturale e valoriale, ma la partecipazione dei cittadini rende possibile. La “smart city” a Barcellona non parte dalla tecnologia ma dalle esigenze dei cittadini e dalle politiche pubbliche, spiega Bria: «Ascoltiamo i cittadini, spieghiamo le nostre soluzioni, andiamo nelle assemblee di quartiere, aggiustiamo le tecnologie sui bisogni emergenti. Dopo il movimento degli indignados la democrazia andava rigenerata. Oggi il 70% delle istanze di governo sono direttamente proposte dai cittadini. E si parla di mobilità. Si pianificano le linee del bus e le chiusure delle strade al traffico. Si parla di casa. Si parla di occupazione. Di inclusione. Abbiamo l’aiuto di istituzioni universitarie straordinarie». E di interpreti come Manuel Castells, da sempre una guida globale per lo sviluppo della cultura della rete.
Francesca Bria ha un ufficio nell’ajuntament di Plaza Sant Jaume, ma anche all’Institut Municipal d’Informàtica – la società in-house che con i suoi trecento tecnici realizza le piattaforme e gestisce i dati che la città mette a disposizione dei cittadini – e a Barcelona Activa che fa, appunto, le politiche di innovazione per lo sviluppo economico e democratico. La capitale della Catalogna, regione tentata dall’indipendentismo, svilluppa piuttosto la sua strategia di modernizzazione e connessione internazionale. «La città è la dimensione giusta per sviluppare la democrazia. E le reti internazionali di città possono avere un peso fondamentale per il futuro».
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore l’8 luglio 2018