Il percorso attraverso il quale si forma la verità nella letteratura poliziesca cambia nel tempo. La sua storia può condurre a una sorta di “epistemologia di consumo”, una disciplina che risponde alla domanda: che cosa rende convincente il lavoro di un investigatore per il lettore di gialli? All’epoca di Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes doveva conoscere le principali teorie scientifiche, osservare i dati di fatto, connetterli alle sue conoscenze generali e dedurre la verità. All’epoca di Raymond Chandler, Philip Marlowe viveva in mezzo alla realtà in divenire e la interpretava ricostruendo storie che potevano dare un senso ai fatti. Nella contemporaneità, il metodo per riconoscere la verità nella letteratura di consumo si è fatto più complesso: nella saga di Millennium, scritta da Stieg Larsson, per esempio, gli investigatori professionali si limitano a trovare connessioni tra persone e fatti e quando ne trovano si sentono legittimati a interrogare o intercettare i sospetti sperando che si scoprano; intanto i giornalisti o gli hacker seguono i loro metodi più o meno legali, cercando documenti che ricostruiscano il contesto nel quale si sviluppano le storie, oppure scovando vere e proprie prove inequivocabili. L’argomento andrebbe approfondito, ma è citato per capire come si è sviluppato il rapporto tra informazione e verità secondo gli storici dell’economia Philip Mirowski e Edward Nik-Khah, “The Knowledge We Have Lost in Information: The History of Information in Modern Economics” (Oxford University Press, 2017). La storia del romanzo poliziesco, per loro, aiuta a comprendere come si sia progressivamente riconosciuto che gli individui che operano in condizioni di eccesso di informazione e scarsità di comprensione si abituino all’esistenza di percorsi diversi per conoscere come stanno le cose in modo convincente. E man mano che perdono di credibilità le istituzioni culturali cui affidavano il loro discernimento, tendono a scegliere secondo le logiche previste dai contesti nei quali si trovano a operare. E citano l’ipotesi dell’economista novecentesco austriaco Friedrich Hayek secondo il quale le persone sperdute nella vastità dell’incompletezza informativa operano efficientemente dal punto di vista economico grazie al mercato. Il fatto è che oggi ci si rende conto che i mercati non esistono in natura ma si progettano: gli economisti dei quali Mirowski e Nik-Khah raccontano le idee ne avevano una certa consapevolezza, ma gli esseri umani che vivono nel mondo di Amazon, Uber, AirBnb e simili si rendono conto che il mercato al quale accedono ha la forma prevista dalle funzionalità offerte dalle grandi piattaforme. La struttura del mercato progettata dalle piattaforme influisce in modo decisivo sulla verifica di ciò che si può sapere intorno alle operazioni economicamente rilevanti, sul confronto tra le scelte alternative, sull’accesso ai consigli dei pari o degli esperti. La “verità” emergente dal mercato – come macchina per processare l’informazione – vista da Hayeck, diventa la “verità” emergente dalle piattaforme private. La riflessione sul valore dell’informazione è anche questo. Ed è anche questo il tema che gli europei si pongono giudicando le conseguenze delle grandi piattaforme americane. Le loro preoccupazioni non sono più soltanto economiche, giuridiche o fiscali: tendono a diventare culturali.
Articolo pubblicato su Nòva il 22 luglio 2018