Martedì scorso, il presidente francese Emmanuel Macron è andato per la terza volta a Station F, la grande impresa di accelerazione dell’ecosistema dell’innovazione fondata da Xavier Niel e guidata da Roxanne Varza, a Parigi. A Station F ci sono già 3mila persone che lavorano in mille startup, a due anni dal lancio dell’idea e a poco più di un anno dall’inaugurazione, alla quale presenziò lo stesso Macron. Le startup trovano servizi di grande qualità, un ufficio che risolve per le pratiche burocratiche con la pubblica amministrazione, una rete di imprenditori che aiutano nella selezione delle buone idee e nelle connessioni, accesso a venture capital, programmi guidati da grandi aziende che conoscono i mercati di riferimento e vogliono a loro volta accelerare la propria capacità innovativa, eventi, e così via. Ma prima di tutto trovano altri fondatori di startup. Station F ha condotto una ricerca tra gli startupper presenti, chiedendo tra l’altro quale sia la risorsa più importante che hanno trovato nell’acceleratore parigino e la risposta numero uno è stata: «La comunità. Più precisamente “essere circondati da migliaia di imprenditori”». Proseguendo nella ricerca, poi, i fondatori hanno anche ammesso che la loro più grande difficoltà è trovare il capitale. La bellezza del posto poi è aumentata dalla filosofia degli organizzatori, orientati a valorizzare la diversità di genere e di culture, l’incontro tra grandi e piccole aziende, l’internazionalità, l’inclusione per le persone che provengono da contesti meno fortunati. Una gigantesca impresa di “open innovation” alla quale il sistema politico offre il suo sostegno, a partire dal presidente. Che tra l’altro è venuto a Station F per rispondere alle domande degli imprenditori in modo aperto e senza il timore di non conoscerle in anticipo…
Ma perché tutto questo è tanto rilevante? Perché Station F, come tutto il tema delle startup, è uno strumento dell’economia dell’apprendimento. Il libro di Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia, e Bruce Greenwald (uscito nel 2014 ma appena tradotto da Einaudi) ha mostrato come la questione della produttività e della crescita si possa tradurre nel tema dell’apprendimento: come fanno le imprese a inventare sempre nuove soluzioni per migliorare il loro modo di operare e ad adottare le pratiche migliori inventate da altri per operare. Le aziende che stanno in piedi, soprattutto in un contesto dinamico come quello attuale, sono le aziende che imparano. Ma è anche vero che le economie che crescono di più sono le economie che favoriscono l’apprendimento.
Se una singola azienda può risolvere il problema dell’apprendimento a modo suo, un’intera economia lo deve affrontare investendo in cultura e formazione, facilitando la circolazione di informazioni di qualità, incentivando la collaborazione tra le imprese e la nascita di aziende innovative. Non solo: Stiglitz e Greenwald dimostrano che tutto questo va fatto pensando non soltanto alle avanguardie, le aziende che inventano sempre nuovi modi per operare meglio, ma anche alle altre imprese, quelle che devono guardare alle avanguardie per imparare. Perché senza inclusività, un’economia non cresce abbastanza. Il bene comune può essere perseguito da politici avveduti o da imprenditori illuminati e si alimenta in un contesto che sa imparare. Cioè dotato di organizzazioni fatte per accelerare la circolazione delle esperienze. La conoscenza genera il valore che la società sa riconoscere.
Articolo pubblicato su Nòva il 14 ottobre 2018