Fatti i “Competence Center” occorre fare i competenti. E aiutarli a dialogare. Perché non si fa innovazione da soli: le università e le imprese che collaborano in format di open innovation possono essere decisive per lo sviluppo dell’economia della conoscenza. I poli universitari che si candidano a creare Competence Center in Italia, sulla scorta della legge che ne incentiva la nascita, sono attualmente otto, nella forma di reti universitarie connesse ai politecnici o università di Torino, Milano (con Bergamo, Brescia e Pavia), Padova (con Verona, Trento, Bolzano, Udine, Trieste, Venezia), Bologna (con Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Parma), Genova, Pisa (con Lucca, Firenze, Perugia, Siena, Sassari, Ancona), Roma (con Viterbo, L’Aquila, Cassino), Napoli (con Caserta, Benevento, Bari, Lecce, Salerno). «I Competence Center sono stati pensati come un sistema di centri di accelerazione della ricerca che possono ricordare i Fraunhofer tedeschi, ma nascono per iniziativa delle università, sulla scorta di un incentivo pubblico che può essere garantito purché abbiano altrettanto sostegno privato» ha ricordato agli Open Innovation Days di Padova (Oid2018) l’ex ministro per lo Sviluppo Carlo Calenda che ha guidato l’avvio della policy sull’industria 4.0. «Ma è difficile la collaborazione in Italia. Le possibilità che le cose vadano storte è elevatissima. Non si devono prendere i soldi dei Competence Center e portarli nell’università, ma destinarli a far dialogare le imprese e le università. Se però questa iniziativa riesce, diventa importantissima per il paese».
Anche perché i Compentence Center non avranno un ruolo territoriale, ma svilupperanno specializzazioni molto elevate intorno alle quali restituiranno il loro servizio a livello nazionale. Quindi anche tra loro, i Competence Center potranno collaborare. E se lo faranno avranno più probabilità di successo. Per esempio, a grandi linee, il Politecnico di Torino andrà a sviluppare un servizio sulla manifattura additiva per tutta l’Italia, il Politecnico di Milano lo farà sul tema della trasformazione digitale, Bologna lavorerà intorno alla questione dei Big Data, Pisa sulla robotica, Padova sui modelli di business e l’internet delle cose, Genova sulla logistica, Roma sulla cybersecurity, Napoli nuovi materiali. Naturalmente tutti lavoreranno nell’ambito delle attività tipiche dell’industria 4.0 e che hanno necessariamente bisogno di un approccio interdisciplinare. E dunque di un approccio collaborativo.
Ma per poter collaborare tra loro i Competence Center avranno bisogno di obiettivi comuni. Ne hanno parlato tutti i partecipanti al panel dedicato a Oid2018. Per esempio un trattamento coerente della proprietà intellettuale che eventualmente dovesse nascere dalla loro azione con le imprese. Oppure un’azione coordinata per andare a cercare i fondi europei. Una condivisione delle esperienze per valorizzare le pratiche migliori. E un sistema di iniziative comuni per far conoscere i loro risultati, al quale certamente Nòva per il Sole 24 Ore darà il suo contributo. Del resto, l’informazione è un abilitatore necessario. Anche perché serve a mostrare che la competenza non è un privilegio o un’inutile orpello, ma non è neppure una caratteristica garantita di certe istituzioni: se quelli che le università stanno costruendo saranno davvero centri di competenza, lo si vedrà in base alle notizie che arriveranno intorno ai loro risultati.
Articolo pubblicato su Nòva il 28 ottobre 2018