Il continente nel quale tutta la vicenda umana è cominciata, non cessa di lanciare nuove domande sul futuro del pianeta. Lo spaesamento che si prova alla fine di un paradigma e prima di chiarire il racconto del prossimo, trova in Africa una forma speciale, tra i mille secoli sedimentati nelle sue minacciate campagne e i milioni di baracche che si aggiungono incessantemente alle periferie delle sue sconfinate città. L’Africa è una sfida per chiunque cerchi di leggere il futuro: meglio imparare ad ascoltare il suo miliardo e duecento milioni di persone che per metà hanno meno di 19 anni: un continente di giovani che scriverà il suo futuro o che sarà condannato a recitare un copione altrui? La risposta che viene dagli artisti, dai filosofi, dagli economisti, dagli imprenditori africani può sorprendere.
L’Africa è stata per secoli dipinta con i colori di chi abita a nord del Mediterraneo e a ovest dell’Atlantico. Un grande giacimento di minerali da estrarre e di muscoli da schiavizzare, il buco nero della disumanità in perenne attesa di una liberazione dal colonialismo politico e culturale, il simbolo della sofferenza infinita e dell’inarrestabile musica della vita, ma anche l’eterna promessa per gli ottimisti dello sviluppo. Ancora oggi una cultura occidentale non cessa di proiettare sull’Africa il suo film, come se la storia del continente potesse essere ridotta al prossimo fotogramma della globalizzazione. E casomai gli occidentali si chiedono se non sia proprio in Africa il punto di collisione competitiva tra l’espansione asiatica e l’affluenza occidentale. Una visione chiaramente parziale. Che del resto è anche anacronistica, in un contesto nel quale, apparentemente, la stessa globalizzazione ha cessato di essere un processo inarrestabile.
Per chi sappia ascoltare, l’umanità africana, oggi, parla con la sua voce. Registrata, tra l’altro, nell’arte e nei numeri raccolti nelle mostre che si stanno concludendo in questi giorni al Maxxi di Roma. «Con la mostra “African metropolis”, abbiamo indagato la capacità umana di immaginare la città e il suo futuroa partire dal punto di vista africano: una nuova tappa della diplomazia culturale nel Mediterraneo che il Maxxi sta conducendo da qualche anno» commenta Giovanna Melandri, presidente del Maxxi. «Ne è emersa una città immaginaria che non riproduce uno schema localistico ma si apre, con semplicità, all’universale». La raccolta di opere ospitata al Maxxi, in effetti, suggerisce una critica sottile dell’inossidabile etnocentrismo occidentale, che non passa dalla denuncia ma dalla fattuale capacità africana di generare punti di vista autonomi eppure – come in ogni ricerca sincera – artisticamente aperti alle altre culture. Un atteggiamento condiviso da Achille Mbembe, filosofo camerunense che insegna a Johannesburg e che ha testimoniato, nel corso degli Open Innovation Days recentemente organizzati dall’Università di Padova e dal Sole 24 Ore Nòva, un’altissima consapevolezza dei rischi che corre l’Africa e, con essa, il pianeta. I suoi accenni alle visioni distopiche suggerite dalla vorticosa digitalizzazione non possono che fare breccia, visto che provengono da un continente nel quale il 93% della popolazione ha accesso all’internet mobile e solo il 63% ha accesso all’acqua potabile e all’elettricità, come attestano i dati di Afrobarometer. Meglio aprire gli occhi, suggerisce Mbembe, e guardare al mondo senza nascondersi dietro un’ideologia.
Che del resto si infrangerebbe sull’incessante flusso della storia. Descritto tra l’altro dalle suggestioni che si trovano nei numeri di “Datafrica”, l’angolo di mostra prodotto dall’Eni, che è anche sponsor dell’intera iniziativa africana del Maxxi.
L’Africa, di certo è oggi la nuova frontiera dell’antropizzazione del pianeta e delle sue conseguenze: una popolazione che ha superato, appunto, il miliardo e duecento milioni, con oltre 600milioni di giovani sotto i 19 anni e che cresce più che in ogni altro angolo della Terra tanto, che raddoppierà entro il 2050 e che alla fine del secolo ospiterà più giovani di qualunque altro continente. Una popolazione che ancora oggi vive in maggioranza in campagna, che si sposta in città al ritmo di più di 20 milioni l’anno e che genera imprese con una densità record mondiale secondo il Global Entrepreunership Monitor (Gem): e si tratta di imprese che nascono non per necessità ma per ricerca di opportunità commenta Mike Herrington, direttore del Gem e professore all’università di Cape Town, intervistato da Cnn. Intanto dall’Africa emigrano circa 400mila persone ogni anno per cercare altre opportunità nelle metropoli del Nord: un numero, peraltro, in rallentamento rispetto gli oltre 600mila di tre anni fa, secondo Worldometers.
L’Africa fa meno notizia di quello che merita. Gli europei potrebbero conoscerla meglio. E imparano a farlo aprendosi alla fascinazione artistica senza paragoni che l’Africa sa generare, alludendo a un viaggio in un altro mondo possibile, purché lo si sappia rispettare.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 31 ottobre 2018