Il timore che l’automazione di alcune attività cognitive possa diventare un problema per l’occupazione è diffuso. E non privo di una base empirica. Ma non si risolve a colpi di pregiudizi e senza studiare quello che succede sul campo. Lo fanno Annalisa Magone e Tatiana Mazali nel loro nuovo libro: “Il lavoro che serve” (Guerini 2018). Visitando i luoghi nei quali il lavoro si svolge, scoprono che i modelli interpretativi vanno adattati alla varietà delle condizioni reali. Ma alcune regolarità si possono individuare, nei diversi contesti aziendali. Come dice un testimone: «Ci sono tre idealtipi: la fabbrica esperta, la fabbrica automatica e la fabbrica intelligente». Il funzionamento della prima dipende dalle conoscenze delle persone che lavorano. La codificazione e l’automazione servono ad aumentare l’efficienza nel quadro delle attività conosciute. La fabbrica intelligente abilita le persone a cercare nuove sinergie, trovare nuovi segmenti di valore, ricombinare le soluzioni per sperimentare innovazioni di vario genere. È il genere di produzione di valore prodotto affrontando creativamente la complessità del quale parla un economista come Enzo Rullani. Ed è un’attività che tiene conto della socialità nella quale è immersa l’impresa.
È per questo che James Wilson e Paul Daugherty di Accenture scrivono che la strategia della sostituzione di umani con macchine è fondamentalmente sbagliata. Gli autori dell’articolo “L’intelligenza collaborativa tra l’uomo e la macchina” contenuto nel terzo “Rapporto Macrotrends” pubblicato in questi giorni da Harvard Business Review Italia, scrivono: «Le organizzazioni cheusano le macchine semplicemente per rimpiazzare i lavoratori attraverso l’automazione non riusciranno a sfruttare fino in fondo le potenzialità dell’intelligenza artificiale». In realtà, le tecnologie innovative consentono ben altro: abilitare le persone a trasformare i processi, i mercati, la produttività e la qualità del lavoro. Generando valore.
La sostituzione di persone con macchine all’interno dei mercati noti non evita, anzi accelera, la tendenza alla compressione dei redditi e dei profitti prevista dalle ipotesi neoclassiche. A meno che non ci siano condizioni di monopolio. La crescita degli investimenti, dell’occupazione e degli utili, invece, è possibile solo in un contesto di innovazione: si tratta della competizione schumpeteriana per la creazione di nuovi mercati. Il caso della Apple è un esempio. La ricombinazione di soluzioni anche note per creare attività economiche nuove interpretando esigenze prima insoddisfatte o neppure immaginate è la strada maestra per utilizzare a fondo tecnologie come l’intelligenza artificiale, pensata non come rimpiazzo degli umani, ma per la sua capacità di fare cose che gli umani non fanno.
Ma tutto questo è impossibile se non si conosce ciò di cui si sta parlando. E il danno creato dall’ossessivo richiamo alla possibilità che le macchine sostituiscano certi compiti svolti dalle persone è anche quello di non condurre all’approfondimento ma soltanto alla paura. Che è un ottimo strumento per il governo delle coscienze ma non per lo sviluppo dell’imprenditorialità e dalla creatività richieste dalla grande trasformazione dell’economia della conoscenza.
Articolo pubblicato su Nòva il 25 novembre 2018