Kellyanne Conway, consigliera del presidente americano Donald Trump, ha inventato nel gennaio 2017 la locuzione “fatti alternativi”, creando così una nuova categoria epistemologica. Questo salto di paradigma è stato scatenato dalla disputa intorno al numero di partecipanti alla manifestazione per l’insediamento del presidente. Le fotografie che riprendevano la folla erano chiare: il pubblico festante nel National Mall a Washington nel giorno dell’insediamento di Barack Obama, nel 2009, appariva più numeroso di quello che si era raccolto nello stesso luogo nel 2017 per celebrare Trump. Nel primo caso lo spazio era tutto occupato, nel secondo si vedevano ampie zone vuote. Il New York Times e altri giornali avevano constatato questo fatto. Ma l’ufficio stampa di Trump lo aveva negato. La quantità di pubblico presente, diceva Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, era enorme. «La più ampia che avesse mai partecipato a una cerimonia di insediamento». L’affetto dimostrato da quel pubblico per il nuovo presidente era straordinario, sottolineava lo stesso Trump. Eppure chi osservava le fotografie vedeva che Obama aveva avuto più seguito. Ebbene, fu allora che Conway disse in televisione che i sostenitori di Trump avevano semplicemente mostrato “fatti alternativi”.
Questa storia è ricordata nell’incipit del magnifico libro di William Davies, “Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo” (Einaudi 2019). Il sociologo ed economista alla University of London, mostra come la vicenda storica attuale sia segnata dalla crisi dell’idea che esistano “fatti oggettivi”. In un certo senso, esistono solo fatti avvolti in un involucro di emozioni. Il fatto visto dai sostenitori di Trump era la numerosità del pubblico moltiplicata, per così dire, dall’affetto che quel pubblico manifestava per il presidente, il che non si poteva vedere guardando delle fotografie.
Porre, come fa Conway, la possibilità che esistano “fatti alternativi” consente di sostenere qualunque convinzione, senza il timore di essere smentiti, appunto, dai fatti. E se questo è possibile guardando delle fotografie, figurarsi se non lo è considerando delle teorie sulla relazione tra i fatti e le loro conseguenze. Osservare per esempio che in questi giorni il tasso di interesse a breve ha superato il tasso di interesse a lungo termine, il che di solito è un segnale l’allarme per chi cerca di prevedere i cambiamenti del ciclo economico, è del tutto irrilevante di fronte alle emozioni revansciste suscitate dalla guerra dei dazi avviata dagli Stati Uniti contro la Cina. Ma con Davies c’è da domandarsi come possa accadere che una mentalità siffatta possa prendere il sopravvendo. L’ipotesi che il contesto storico, nella sua complessità, sia connesso a questi cambiamenti è plausibile. Come lo è l’osservazione secondo la quale il contesto storico è percepito attraverso il sistema dei media. I fatti alternativi sono il frutto di ciò che le persone percepiscono. E nella maggior parte dei casi sono il prodotto di media autoreferenziali.
«Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti in un suo famoso film. Le parole che descrivono i fatti, e li interpretano, guidano le azioni, con tutte le loro conseguenze. Ma il modo in cui le parole emergono nell’ecosistema mediatico dipende anche dai sistemi incentivanti impliciti nei media. Le parole che girano prive di discernimento in rete, guidano le azioni di chi le prende per buone. La soluzione non può essere quella di impedirne la circolazione. La soluzione è quella di moltiplicare gli sforzi per diffondere parole sensate. Significa anche credere che si possano creare nuove piattaforme che incentivino non tanto la circolazione di credenze attraenti ma il rapporto empirico tra i fatti e le parole. L’epistemologia è scritta anche negli algoritmi.
Se ci sono fatti alternativi, devono poterci essere anche piattaforme alternative.
Articolo pubblicato su Nòva il 2 giugno 2019