Il fenomeno è chiaro: la digitalizzazione ha consentito la registrazione di una quantità di dati senza precedenti. Dati sui comportamenti delle persone, sul funzionamento delle macchine, sull’evoluzione dell’ambiente. La quantità di dati disponibili è enorme. Si è parlato di “Big Data” per definire la conoscenza estraibile dai dati, facendo il verso a “Big Oil”, il grande business del petrolio: in effetti, la metafora che racconta i dati come se fossero il nuovo petrolio è stata citata ovunque. Ma la visione estrattiva dell’economia dei dati si è presto rivelata insufficiente. A differenza del petrolio, i dati non sono una risorsa limitata, ma a quanto pare crescono incessantemente, si duplicano quando sono scambiati, generano altri dati quando sono analizzati, e così via. Peraltro, il loro valore non è limitato allo sfruttamento immediato delle funzioni dei prodotti e servizi che se ne possono “estrarre”: i dati generano conoscenze che a loro volta possono accelerare altre forme di generazione di dati, altri modi per riutilizzarli, nuove tecniche per interpretarli. E dunque, sofisticando il discorso, si è parlato di “data science” e si è evocata la necessità di assumere nelle aziende i “data scientist” necessari non solo a sfruttare tecnicamente i dati, ma anche a fare ricerca con i dati. Il tutto peraltro si poi è trovato immerso in un complesso fenomeno sociale che ha favorito l’emergere di ampie visioni critiche: da quelle relative alla salvaguardia della privacy a quelle che riguardano la concentrazione del potere nelle mani delle grandi centrali di aggregazione dei dati. Sicché McKinsey suggerisce il concetto di “cultura dei dati”.
Per le aziende, la cultura dei dati si rivela necessaria ben oltre il mondo specialistico degli analisti. In generale, riguarda la diffusione dell’approccio empirico suggerito dall’analisi dei dati a molte attività aziendali, dalla produzione al marketing, dalle risorse umane alla finanza, rende possibile una progettazione “agile” con prototipi veloci e feedback immediato, consente una modalità di produzione di componenti e servizi informatici non solo personalizzata, ma addirittura corretta e migliorata in tempo reale assieme al cliente. Ma non solo. Per le aziende e per tutte le organizzazioni, la cultura dei dati rende possibile internalizzare le conseguenze a largo raggio della loro azione. Stiamo parlando della sostenibilità dell’operatività delle organizzazioni in relazione all’ambiente, alle relazioni sociali, alla qualità dell’informazione. La cultura dei dati è una spinta alla consapevolezza del valore del contesto nel quale un’organizzazione opera, anche per il buon funzionamento della stessa organizzazione. La cultura dei dati consente di immaginare o, persino, dimostare l’importanza dei dettagli che riguardano l’interfaccia tra i prodotti e gli utilizzatori per l’evoluzione del complesso sistema sociale nel quale vengono poi sviluppati. La cultura dei dati toglie di mezzo alcuni importanti alibi ai quali in precedenza si faceva riferimento per attribuire alla fatalità l’evenienza di fatti negativi legati alle modalità d’azione delle organizzazioni. Non elimina il caso, ovviamente, ma rende le organizzazioni più consapevoli del peso dell’intelligente preparazione al cambiamento. Valorizzando un approccio aperto all’imprevedibile. E ridefinendo l’educazione come l’investimento più importante di tutti.
Articolo pubblicato il 29 settembre 2019