Una ricerca della Fondazione Centro Studi Doc segnala che il sommerso nella musica dal vivo in Italia si può stimare tra i 2,8 miliardi e i 4,7 miliardi di euro. Il che riguarda un mercato nel quale ufficialmente operano 43.500 artisti, secondo l’Inps, che ne traggono un reddito di 431 milioni di euro. Secondo Siae la musica dal vivo sviluppa un volume d’affari di 1,55 miliardi. Ma questi numeri, secondo la Fondazione Doc, appunto, non tengono conto di un mondo che lavora nel sommerso. Chiunque ricordi il rumore assordante delle proteste degli editori musicali di fronte a chi copiava illegalmente la musica in formato digitale nei primi anni del millennio, non può che notare il silenzio che circonda questa forma più tradizionale di pirateria che condanna gli artisti e chi collabora alla produzione di musica dal vivo a lavorare in nero per sviluppare l’arte e il business connesso. Tra le proposte che la Fondazione Doc sta raccogliendo per correggere questa situazione, molte fanno uso della logica delle piattaforme digitali, interpretate in chiave cooperativa e con architetture distribuite. Il che è motivato dall’obiettivo di creare condizioni incentivanti per i comportamenti corretti e per avvantaggiare il maggior numero di artisti, non soltanto le grandi star.
È un esempio della classica contrapposizione tra due interpretazioni della rete. Fin dai primi anni dell’epopea di internet gli analisti si sono concentrati su due narrative , quella della democratizzazione e quella della polarizzazione: per i primi, internet rendeva più accessibili le risorse abilitando molte più persone nel gioco dell’innovazione, mentre per i secondi l’effetto-rete generava pochi grandi vincitori in ogni categoria competitiva. Chi ha avuto ragione? Se si guarda ai casi di grandi successi digitali, da Google a Facebook, da Uber ad AirBnb, si direbbe che la polarizzazione abbia prevalso. Di certo, in molti settori coinvolti in una forma di trasformazione digitale fondata sulla logica delle piattaforme orientate a conquistare posizioni monopolistiche con il sostegno di forti capitali finanziari ha prevalso chiaramente la regola chiamata “il vincitore prende tutto”, il che è tutt’altro che democratico. Nello spettacolo – dalla musica ai film – la stessa idea della “coda lunga” secondo la quale avevano spazio sia i grandi successi che le piccole nicchie si sta rivelando sempre meno realistica, con una concentrazione sui maggiori successi superiore a ogni confronto. L’interfaccia mobile dello smartphone, piccola e veloce, ha accentuato enormente il fenomeno rispetto all’epoca del computer. E l’interfaccia vocale sembra destinata ad accentuare ancora di più la polarizzazione: chi chiede ad Alexa un brano musicale non si fa rispondere con un elenco ma tende ad ascoltare la prima canzone che il sistema offre. E questo vale anche per altri contenuti.
Oggi sappiamo che i fenomeni della polarizzazione o della distribuzione paritaria delle risorse sono incentivati dall’interfaccia che consente di usare le piattaforme e dal loro modello di business. Non c’è nulla di automatico né intrinsecamente connesso alla tecnologia digitale. Quindi la polarizzazione si può correggere. Le piattaforme cooperative possono essere sviluppate. Ma vanno pensate diversamente: in termini di interfaccia e modello di business. Si può fare.
Articolo pubblicato su Nòva il 24 novembre 2019