La capacità competitiva italiana nell’intelligenza artificiale è scientificamente riconosciuta. Come riporta Rita Cucchiara, specialista di visione artificiale all’università di Modena e Reggio, i ricercatori italiani sono secondi solo ai britannici per numero di citazioni e pubblicazioni scientifiche sull’intelligenza artificiale. Casomai rispetto ad altri paesi europei come Francia e Germania, in Italia mancano i soldi da investire. Il ministero della Pubblica istruzione e della ricerca, con il Cnr e una mezza dozzina di università è riuscito a mettere insieme un programma triennale da 16 milioni per 200 borse di dottorato nazionale in intelligenza artificiale. Dino Pedreschi, scienziato dei dati all’università di Pisa, che su Nòva aveva fatto notare come la ridotta dimensione degli investimenti italiani sull’intelligenza artificiale fosse un errore strategico, ha contribuito all’avvio del progetto. Si cerca un’interpretazione profondamente europea dell’intelligenza artificiale, centrata su una tecnologia al servizio dell’umano, focalizzata su temi come la salute, l’agricoltura di precisione, l’industria 4.0, la cybersecurity, l’impatto sociale. Un recupero, almeno dal punto di vista della conoscenza scientifica è necessario e perfettamente possibile. Ma il progetto si propone di coinvolgere anche l’ecosistema produttivo.
Da questo punto di vista, all’inizio dell’anno si parlava di un interessamento anche del ministero dello Sviluppo per connettere l’impegno universitario nell’intelligenza artificiale allo sviluppo di programmi di investimento nelle startup interessate a svilupparsi valorizzando questa tecnologia. La questione si era arenata con tutto il progetto del fondo per l’innovazione che doveva moltiplicare le risorse per il venture capital italiano: ma il tutto sembra potersi riprendere ora che è stato nominato l’amministratore delegato del fondo nazionale per l’innovazione, Enrico Resmini.
Nella tecnologia c’è sempre un prossimo treno da prendere per agganciarsi alla dinamica dell’innovazione. Certo, bisogna essere preparati. E la ricerca, le startup, la finanza specializzata, sono elementi indispensabili per formare un ecosistema ricettivo. Servono anche le aziende capaci di leggere le opportunità offerte dalla tecnologia e anche queste di certo non mancano in Italia. Il problema casomai è la distanza che si sta ampliando tra le imprese, le persone, le università che hanno capito la portata della trasformazione in atto e quelle che non ne hanno preso coscienza. Se c’è un pericolo nell’intelligenza artificiale è proprio la possibilità che aumenti la polarizzazione, la distanza tra chi e dentro e chi è fuori dalla dinamica economica e tecnologica del momento.
Ma la storia non è finita. Se è vero che Stati Uniti e Cina sono più avanti nell’intelligenza artificiale dal punto di vista della capacità di allenare i loro sistemi con grandissime quantità di dati, gli europei sono in grado di avviare un processo di innovazione centrato sui valori umani, il rispetto della persona, la ricerca della sostenibilità. Con l’entrata in gioco della nuova Commissione sembra che la policy europea sarà ispirata dalla sensibilità per il valore umano dei dati e per la qualità dell’ambiente. È un ruolo nel quale l’Europa può giocare da protagonista.
Articolo pubblicato su Nòva il 1 dicembre 2019