Non c’è discorso sulla ricerca italiana che non cominci o finisca col toccare il tema della scarsità dei finanziamenti. Ma se tutti sono d’accordo sul fatto che il totale degli investimenti italiani in ricerca è basso, raramente qualcuno si sofferma ad analizzare la diversità delle logiche con le quali questi investimenti sono gestiti. In generale, nel privato si assiste a una fioritura di modelli, con i laboratori interni, i format di open innovation, i joint lab, il corporate venture capital e così via; nel pubblico si stanno differenziando almeno due schemi. Da una parte, le strutture regolate dalle norme della pubblica amministrazione concentrano gli investimenti sui ricercatori, sviluppano complessi meccanismi di reclutamento e inquadrano gli assunti con contratti stabili; dall’altra parte, mutuate da logiche più diffuse nei paesi anglosassoni, si fanno strada entità che investono fortemente sulle infrastrutture di ricerca e che collegano l’assunzione e l’impiego dei ricercatori ai loro risultati attesi e ottenuti.
La diversità dei modelli è probabilmente la migliore garanzia di sviluppare la conoscenza. La ricerca si occupa degli ambiti più vari della conoscenza, esplora i territori sconosciuti, si propone si superare i limiti del possibile: ha bisogno di sistemi incentivanti diversi. Sicché appare strana la propensione a criticare duramente e con disprezzo i modelli altrui, molto più diffusa di quanto non ci si potrebbe aspettare tra gli scienziati e i professori. Nei giorni scorsi un articolo del grecista Walter Lapini sul “Corriere della sera” fortemente critico nei confronti dello schema di investimento in ricerca gestito dallo European Research Council (Erc) ha generato un’ondata di proteste sui social e una replica sullo stesso giornale del rettore della Bocconi, Gianmario Verona, e del sociologo demografo Francesco C. Billari. L’idea di Lapini è che i percettori di grant e investimenti Erc ottengono vantaggi di carriera a velocità superiore agli altri aspiranti professori e ricercatori pubblici, presentando prevalentemente progetti modaioli e furbetti. La risposta di Verona e Billari è che gli Erc valorizzano il merito individuale dei ricercatori e l’eccellenza infrastrutturale dei centri di ricerca, perché premiano progetti di ricerca importanti, valutati in maniera rigorosa, che spesso producono risultati straordinari come è dimostrato dai sette Nobel vinti da percettori di Erc. Le informazioni condivise da Verona e Billari sono più realistiche delle opinioni di Lapini. Un fatto è certo: i due miliardi che l’Europa ha affidato all’Erc nella dozzina d’anni di vita dell’istituzione sono poca cosa in confronto alla quantità di denaro speso in modi più convenzionali. Ma aggiungono incentivi a osare nei progetti di ricerca: un atteggiamento che altri meccanismi rischiano di inibire. Perché privarsi di questa opportunità? Purtroppo la torta del finanziamento pubblico alla ricerca è insufficiente, il che induce molti nella tentazione di protestare contro ogni gestione meno convenzionale delle risorse. Ma lo sviluppo della conoscenza non si fa obbedendo alle convenzioni. L’innovazione culturale è sempre anche una piccola o grande ribellione. Impedirla o frenarla non farebbe bene a nessuno. Piuttosto occorrerebbe impegnarsi sul serio per migliorare anche i sistemi di ricerca più tradizionali.
Articolo pubblicato su Nòva il 12 gennaio 2020
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