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Il metaverso è un concetto proposto da Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash, del 1992: un mondo digitale parallelo nel quale le persone si rifugiano per fuggire alla realtà e interagire tra loro in un ambiente completamente artificiale nel quale essi stessi appaiono come avatar, altra idea originale del romanzo. Sergey Brin, co-fondatore di Google, l’ha citato come uno dei suoi libri di riferimento in un’intervista del 2000. Ma secondo la ricostruzione di Ronald Eisenbrand e Scott Peterson, su Omr, Snow Crash ha avuto un’influenza importante su molte persone a Silicon Valley. Tim Sweeney, fondatore di Epic Games, l’azienda del popolare gioco Fortnite, persegue esplicitamente da tempo la costruzione di un metaverso. E a quanto pare per qualche tempo Snow Crash è stata una lettura di moda anche tra i manager di Facebook.
Mark Zuckerberg, fondatore del social network, ha annunciato che investirà miliardi nella costruzione del metaverso e per questo ha rinominato l’azienda Meta. Pensa che le comunicazioni di miliardi di persone si sposteranno nel suo nuovo ambiente digitale. Intanto, la Microsoft ha annunciato a sua volta che sulla sua piattaforma per le riunioni digitali, Teams, sarà possibile presentarsi con l’aspetto di un avatar invece che con la propria immagine raccolta dalla telecamera. E con questo troverà concreta applicazione una nuova interpretazione del lavoro nel metaverso, una versione più divertente – secondo Microsoft – dello smartworking.
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Sta di fatto che una tecnologia di rete all’inizio non vale molto, perché non ha utenti. Occorrono motivazioni per spingerli a entrarci. Zuckerberg promette l’immersività dell’esperienza. Una motivazione certamente più astratta e meno calda di quella di cercare gli amici. E non molto diversa da quella proposta dagli altri. Che cosa potrebbe fare la differenza a favore di Zuckerberg? Per quello che se ne sa attualmente, a suo favore gioca solo il potere di convincimento che esercita sui miliardi di utenti che le sue piattaforme servono attualmente.
È possibile che questo possa essere un limite della sua strategia. In fondo, le autorità antitrust occidentali tengono d’occhio Facebook. E potrebbero non essere d’accordo con la sua conquista del metaverso. Ma alla fine saranno proprio gli utenti a decidere. Accetteranno di dedicare ancora più tempo e attenzione alle piattaforme di Zuckerberg? E si fideranno di lui?
La stanchezza digitale è una realtà emergente. Non manca, soprattutto dopo l’esperienza delle clausure decise per la pandemia, chi cerca un nuovo equilibrio tra la vita nell’ambiente fisico e il tempo passato nella mediasfera digitale, scandita dalla consultazione spesso compulsiva dello schermo dello smartphone. È un’ipotesi non irrilevante per tre miliardi e mezzo di persone che non possono fare a meno della protesi cerebrale, costituita dal telefono, per vivere in un ambiente profondamente digitalizzato e che accettano di essere sorvegliati in ogni loro manifestazione quotidiana. Veronica Barassi ne scrive, pensando ai bambini, nel libro “I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita” (Luiss 2021). Un ambiente nel quale ogni gesto è registrato, ogni persona può sentirsi personaggio, ma la cui storia è dettata soprattutto dalle regole della piattaforma e dai dati raccolti nel corso della sua esistenza.
E qui si arriva al terzo problema. Mentre nella prima Facebook non c’erano motivi di dubitare delle intenzioni di Zuckerberg, all’epoca di Meta il pubblico può ritenere quantomeno problematico fidarsi del creatore del social network che non fa che raccogliere dati da rivendere sul mercato dell’attenzione. Il caso Cambridge Analitica non è del tutto dimenticato. E le nuove accuse alle pratiche di Facebook, che andranno verificate, di certo ne minano la credibilità: si veda per esempio il libro di Sheera Frenkel e Cecilia Kang, “Facebook: l’inchiesta finale” (Einaudi 2021). Insomma, se la fiducia nella prima versione di Facebook è in discussione, perché dovrebbe essere più facile credere nella seconda versione, apparentemente orientata a esigere ancora più tempo e attenzione dalle persone che ne usano la piattaforma? La motivazione di Epic Games è ben più chiara. Il metaverso serve a vivere in una storia. Per gioco.