Il potere dei dati

Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 5 ottobre 2024


Mentre le BigTech si difendono nei tribunali europei, la Microsoft sembra piuttosto all’attacco sul mercato. Nel corso degli ultimi mesi, Brad Smith, vice chairman e presidente della Microsoft, ha annunciato 4,3 miliardi di investimenti in Italia, 3,2 miliardi in Germania e 2 miliardi circa in Spagna nei prossimi due anni. Altri interventi sono previsti in Grecia. Ufficialmente sono tutti soldi destinati a costruire nuovi datacenter, aumentare i servizi di intelligenza artificiale e contribuire all’istruzione di milioni di lavoratori europei. Insomma, si tratta di una decina di miliardi di euro che la Microsoft investe in Europa. Mentre applaudono a queste decisioni, certamente benvenute, gli europei dovrebbero anche chiedersi quali siano le motivazioni di questo attivismo della Microsoft. Escludendo, per il momento, l’ipotesi che si tratti di generosità.

Le BigTech sono, contemporaneamente, aziende e sistemi di potere. Come aziende, sono in concorrenza tra loro, si confrontano con le regole degli stati e cercano di massimizzare quote di mercato e profitti. Come sistemi di potere operano come gigantesche lobby e hanno una loro politica estera che – di solito, ma non necessariamente – sviluppano in collaborazione con il governo degli Stati Uniti. In generale, sono in grado di governare i comportamenti di miliardi di persone e di estrarne una quantità di dati di grande valore.

Ma, in particolare, qual è il valore di questi dati? La giurista Giusella Finocchiaro ne considera il valore per gli utenti in quanto generatori di servizi importanti, per esempio nella sanità, purché non vengano esposti i dati personali. E Finocchiaro se ne occupa anche per valutare come usare i dati nei bilanci aziendali. E citando uno studio di Kean Birch e altri fa notare che i principi contabili standard usati negli Stati Uniti impediscono alle imprese di considerare i dati personali come asset da iscrivere in bilancio. Succede invece che le imprese misurino e traccino i comportamenti delle persone per elaborare metriche che servono a valutare e massimizzare il potenziale di business che i loro clienti possono garantire. In altre parole, forse imprecise, non è tanto la massa dei dati che conta dal punto di vista finanziario, quanto il controllo e l’utilizzo del comportamento degli utenti. La forte conoscenza che Google-Alphabet e Facebook-Meta possono vantare sui movimenti delle persone che navigano in rete è in effetti il patrimonio più importante che garantisce loro di offrire servizi di pubblicità targettizzati efficaci. L’analoga conoscenza che Microsoft e Amazon hanno accumulato sulle imprese le favorisce, con ogni evidenza, nelle trattative con le stesse e nella definizione delle loro offerte. Inoltre in Italia, Google ha una forte presenza nel mondo della scuola. Microsoft è molto attenta alla sanità. Entrambe, insieme a Oracle e Amazon, sono perfettamente introdotte nella pubblica amministrazione, anche grazie agli accordi con il Polo Strategico Nazionale. Forme di presenza capillare. In pratica, i dati non sono una parte del valore delle BigTech: sono il generatore essenziale del loro business.

Per gli europei, tutto questo significa molto. Non avendo aziende paragonabili, grazie alle BigTech gli europei possono accedere a tecnologie che altrimenti mancherebbero, per l’educazione, la sanità, la produzione, la pubblica amministrazione, e così via. Il problema casomai consiste nel fatto che gli europei ci tengono ai loro diritti umani, alla loro indipendenza strategica e alla giusta remunerazione del valore che essi portano nel quadro degli scambi commerciali. Le regole europee, spesso criticate dalle stesse imprese europee, sono tra i pochi elementi che impongono alle BigTech dei comportamenti virtuosi nel modo di trattare di dati. Non solo in termini di privacy, ma a questo punto anche in termini di accesso alla conoscenza. «L’equilibrio delle relazioni tra europei e BigTech passa anche dalla disponibilità di queste ultime a concedere l’accesso ai loro dati e ai loro algoritmi» osserva Juan Carlos De Martin, condirettore di Nexa al Politecnico di Torino. In effetti, il Digital Services Act impone alle grandi piattaforme di aprire agli scienziati i loro dati per ricerche importanti dal punto di vista sociale: ma questa regola deve essere ancora valorizzata pienamente. Ha un’importanza strategica: più avanza il controllo sui dati degli europei da parte delle aziende americane, più occorrono forme di ridistribuzione del potere che ne deriva.