Articolo pubblicato su Nòva il 13 ottobre 2024
Il loro potere è cresciuto a dismisura. Sono accolti da primi ministri e presidenti, in mezzo mondo, come capi di stato. E come tali si comportano. Anche perché molto spesso, praticamente, lo sono. I leader delle BigTech decidono il codice – la legge – che governa il comportamento di miliardi di persone. Organizzano la soluzione di controversie, puniscono e premiano i loro utenti, in base a criteri che loro stessi definiscono, senza alcuna trasparenza. Hanno una politica estera, intervengono nelle guerre e scelgono in quale campo stare nelle battaglie elettorali. Le BigTech sono le protagoniste di una nuova dimensione della geopolitica, nella quale i soggetti in campo non sono più soltanto gli stati.
Asma Mhalla è una studiosa tunisina con un passato nella finanza e un futuro nell’analisi delle infrastrutture digitali. Insegna a Sciences Po, Parigi, e ha scritto “Technopolitique” (Seuil 2024), conquistando l’attenzione degli interpreti di questa trasformazione della competizione mondiale. «Il potere delle BigTech è fondato sulla costruzione di infrastrutture digitali sistemiche che catturano gli utenti in modo quasi totalizzante, generando enormi concentrazioni economiche ed efficacissime forme di controllo mentale e psicologico», dice Mhalla. «Sono vettori della potenza americana e nello stesso tempo si trovano in dialettica con il sistema politico degli Stati Uniti». È un tratto cruciale di questo XXI secolo che si sviluppa parallelamente all’espansione della Cina, per certi versi analogamente fondata sulla tecnologia digitale votata alla gestione della complessità. «Tutto questo spiazza l’Europa che, dal punto di vista geopolitico, sembra avere una visione che non si è modificata dal XX secolo».
È un contesto nel quale si rischia una sorta di privatizzazione della democrazia, secondo Mhalla. Alla cui voce si aggiunge quella, preoccupata e impegnata, di Marietje Schaake, ex parlamentare europea, oggi docente a Stanford, che ha appena pubblicato “The Tech Coup” (Princeton University Press 2024) per sottolineare che «se non si interviene, le democrazie sono destinate a imboccare una spirale autodistruttiva». Perché ormai si vede un equivoco di fondo nella storia recente del digitale: doveva democratizzare la tecnologia, ma ha tecnologizzato la democrazia.
Ci può essere una riscossa europea? «Bruxelles ha una strategia difensiva, con tutto l’apparato di leggi che ha introdotto per contrastare il potere delle BigTech e affermare il rispetto dei diritti umani» dice Mhalla. «Ma non ha una forza aziendale che sia minimamente paragonabile a quella degli americani. Il rapporto Draghi argomentava correttamente. Ma non pare che sia applicabile». Eppure il cambio di geopolitica è visibile. E il sistema degli strumenti che sono necessari per giocare ad alto livello in economia e in politica, per gli europei, non può prescidere da quelli digitali. Anche perché la vicenda di Pegaso e delle tecnologie per lo spionaggio, il boicottaggio sistematico dei sistemi avversari che si inserisce in un quadro già precario dal punto di vista della cybersicurezza, la diffusione di disinformazione, dimostrano che gli stati e le autorità sovranazionali che vogliano avere un peso militare e comunque giocare da protagonisti nella competizione internazionale non possono non pensare a controllare seriamente la filiera produttiva del digitale. L’episodio dei pager e dei walkie talkie usati come bombe in Libano, se non altro, dimostra che un sistema politico sovrano deve sapere come funziona il suo sistema di approvvigionamento di strumenti digitali. Ma già da tempo si era compreso che la scelta di affidare a un privato come Starlink l’infrastruttura delle comunicazioni militari nel corso di una guerra può essere un punto di forza nell’immediato ma, strategicamente, si può trasformare in una debolezza. E gli stati che lasciano la loro sovranità a imprenditori di dubbia simpatia ma di sicura ambizione non fanno gli interessi dei loro cittadini.