Se
la pubblicità è l’anima del commercio, la psicologia delle relazioni
tra le persone e le aziende è da tempo in analisi sul lettino dei social
network online. Schiere di terapeuti dell’epoca digitale raccolgono
sogni e incubi, consci e inconsci, di centinaia milioni di persone
immerse nella complessità della rete. Le preoccupazioni: information
overload, perdita della privacy, strumentalizzazione dell’amicizia. Le
speranze, sulla scorta della visione utopica lanciata dal Cluetrain
Manifesto, una decina d’anni fa, non cessano di affascinare: la rete
riporta effettivamente alla luce la dimensione umana anche nelle
relazioni commerciali, superando la spersonalizzante visione del
marketing tradizionale. Ma la complessità è lungi dall’essere domata. E
non per nulla si cercano nuovi ancoraggi, per esempio, nella connessione
tra la leggerezza delle reti sociali online e la concretezza delle reti
territoriali.
Foursquare,
Gowalla e, ora, Facebook Places tentano di approfittarne, offrendo
servizi che collegano le informazioni sulla localizzazione delle persone
alle conversazioni che si tengono sui social network. Cercano di
monetizzarne il valore in chiave di pubblicità locale. E ci riescono,
soprattutto se conquistano molto traffico: non per nulla gli analisti
pensano che con l’entrata in gioco di Facebook nella localizzazione ci
sia molto meno spazio per i piccoli concorrenti. Perché di fronte alla
complessità, le persone tendono ad affidarsi a chi può semplificare le
scelte.
Una
dinamica dell’innovazione si ripete: piccole start up inventano nuovi
modi per sfruttare il giro delle informazioni emergenti nelle reti
sociali e, se hanno successo, vengono acquistare e incorporate da grandi
piattaforme. Oppure vengono semplicemente copiate. È andata bene alla
Siri, una start up che aveva sviluppato un software in grado di fornire
risposte a domande come “dove è meglio andare a cena questa sera in
questa città?” sulla base delle informazioni scambiate dagli utenti dei
social network: la Siri è poi stata acquisita dalla Apple. In Italia, in
questo spazio, Erik Lumer sta sviluppando Cascaad. Mentre altre
tecnologie cercano il loro successo nella gestione della conoscenza che
emerge dai social network come fanno Tweefind e Twimbow di Luca
Filigheddu, tecnologie segnalate negli Stati Uniti dai guru di Mashable.
Per tutte queste idee occorre conquistare attenzione e traffico prima
di pensare a inserirsi un in flusso commerciale. Farlo in proprio, del
resto, è difficile: più spesso è meglio aggregarsi a una grande azienda
che abbia già un modello di business. Il che va bene anche agli utenti.
La quantità di nuove idee che si presentano sul mercato non semplifica
la vita dei consumatori. Che molto spesso finiscono per utilizzarle
quando sono adottate o lanciate dai giganti: Google, Apple, Facebook, e
così via. Ma la prevedibilità di questa dinamica e l’estrema razionalità
commerciale dei protagonisti, sembrano in questa fase prevalere sulle
tensioni utopistiche.
In
questo senso, la recente discussione intorno alla presunta “morte del
web” si comprende meglio. Neppure troppo tra le righe Chris Anderson e
Michael Wolff osservavano nei loro articoli su Wired come questa fase
dell’innovazione internettiana si giochi moltissimo intorno alla
generazione di business da parte delle grandi piattaforme, mentre sta
perdendo peso lo sviluppo disinteressato del web aperto. Un articolo di
poco precedente al loro, pubblicato su Newsweek da Tony Dokoupil e
Angela Wu, segnalava che il numero di volontari che aggiornano Wikipedia
è in ribasso e che l’enciclopedia online ha iniziato a organizzarsi per
aumentare il reclutamento.
Sarebbe
un errore tirarne fuori una conclusione cinica. L’innovazione resta un
fenomeno complesso. Nel quale l’ispirazione utopica gioca sempre un
ruolo tanto decisivo quanto sottile. Genera visioni lungimiranti che,
quando si rivelano giuste, lasciano il posto prima o poi all’azione
coordinata delle truppe del grande commercio. Allora sembra immergersi
nella routine. Ma è un attimo. Perché rimerge un poco più in là.
Inattesa.