Sei anni e 400 milioni di utenti dopo, Facebook resta un fenomeno tutto da comprendere. La sua capacità di generare messaggi e novità induce nella tentazione di concentrare l’attenzione sull’osservazione del continuo aggiornamento del suo stato presente: ma chi si interroga sulle sue conseguenze, non ne perde di vista le origini e si sforza di riconoscere le dinamiche strutturali della sua breve ma intensa storia. Perché Facebook, diventato un gigante globale, si candida a ridefinire alcuni degli aspetti centrali del web, dalla ricerca di informazioni alle comunicazioni tra utenti e alla pubblicità online.
In proposito, soccorre la ricostruzione di Ben Mezrich, pubblicata da Doubleday: The Accidental Billionaires: The Founding of Facebook, A Tale of Sex, Money, Genius, and Betrayal. Che, giustamente, Charles Petersen, sulla New York Review of Books, accosta al lavoro di Julia Angwin, Stealing MySpace. (Random House).
Facebook è nato a Harvard nel febbraio del 2004, quando MySpace era già sulla cresta dell’onda. Il servizio poi acquistato da News Corp aveva dimostrato il potenziale delle reti sociali online ma non aveva sviluppato una strategia sull’interfaccia. Anzi, proprio lasciando gli utenti sostanzialmente liberi di sviluppare la propria interpretazione grafica e contenutistica delle pagine aveva dato luogo a un ambiente vagamente caotico e creativo, adatto alle culture giovanili di ogni genere, comprese le più estreme e periferiche. Facebook, al contrario, era nato come luogo di incontro online per i compagni di università di Harvard e si presentava in modo ordinato, elegante, consapevole del ceto sociale della maggior parte dei suoi utenti, destinati a far parte della classe dirigente. Aveva cercato in questa esclusività il suo carattere identitario, in un mercato affollato, nel quale, oltre a MySpace, c’erano da tempo Friendster, SixDegrees, Bebo e Orkut. Anche allargandosi ad altre università, come Stanford e Princeton, non aveva che riconfermato la sua vocazione élitaria. Inconsapevolmente, la sua struttura formale e i contenuti che induceva a condividere rispecchiavano, secondo Petersen, l’idea del sociologo Pierre Bourdieu: l’estetica è soprattutto espressione di distinzione sociale che si afferma prendendo posizione su ciò che piace. Era insomma un contesto che favoriva le dichiarazioni di "amicizia" tra chi aveva il privilegio di usare il servizio.
I genitori degli studenti Ivy League si aggregarono volentieri alla rete sociale di Facebook. Che, anche quando fu aperta a chiunque, conservò un’aura di credibilità da "establishment" cui il mondo di MySpace non poteva aspirare.
La storia recente è una serie di vittorie sul campo, nel software e nel valore d’uso: dai successi di innovative campagne promozionali, come quella di Obama, alla trasformazione del profilo di Facebook in chiave di accesso a molti servizi online, attraverso Connect. Dal privilegio di essere in pochi, al vantaggio di essere in 400 milioni. E oltre.
Nonostante Facebook non abbia inventato molto, ha dimostrato ancora una volta il potere competitivo dell’effetto-rete. Che, se attecchisce, può essere micidiale.