Credo che James Watson, Nobel e co-scopritore del Dna, avrà molto tempo per rimpiangere quello che ha detto in merito alla relazione tra patrimonio genetico e intelligenza (senza negarsi alcuni esempi evidentemente interpretabili come razzisti), nonostante le precisazioni molto umili ed esaurienti che ha fatto in seguito. Già in precedenza però era scivolato su idee bizzarre. Come del resto è facile se si pensa, sotto sotto, che la genetica spieghi le qualità delle persone, la loro intelligenza, i loro comportamenti. E soprattutto se si pensa che lo sviluppo degli studi sulla genetica porterà l’umanità a poter progettare ingegneristicamente un miglioramento della specie umana.
Il problema deriva da una confusione epistemologica, oserei dire.
In primo luogo, non è corretto immaginare un vero e proprio determinismo genetico. Un conto è scoprire alcune possibili relazioni tra particolari aspetti del patrimonio genetico e alcune funzionalità o alcuni aspetti del corpo, un altro conto è pensare che tra le dinamiche genetiche e quelle comportamentali, collettive e individuali, ci possa essere una relazione in qualche modo prevedibile. Tra l’una e l’altra c’è di mezzo un mare di fenomeni da studiare: i geni e il loro contesto fisico, le mutevoli condizioni ambientali, le molte forme dell’ereditarietà, l’imperfezione dei meccanismi (che tra l’altro serve proprio all’evoluzione), la varietà delle culture, le interpretazioni personali e storiche delle dinamiche culturali e comportamentali, l’evoluzione dell’etica, lo sviluppo di diverse strutture di valutazione dei comportamenti e di definizione di ciò che è importante… Tutto questo, credo, genera un contesto totalmente caotico, nel quale la relazione tra genetica e comportamento si perde in un’infinità di potenziali relazioni tra variabili diversissime: pensare deterministicamente che si possa arrivare a prevedere l’effetto dei geni non è molto meglio che pensare di poter prevedere dove va un’automobile studiando attentamente gli atomi dei quali è fatta.
Insomma. Oggi non siamo in grado di comprendere la relazione scientifica tra geni e comportamento (men che meno comportamento individuale), perché non è ipotizzabile alcuna relazione lineare, diretta, definibile tra geni e comportamento. Perché si tratta di dimensioni della ricerca diverse. Ma c’è un secondo problema.
Il problema è che si potrebbe sempre immaginare che in futuro la scienza si sviluppi tanto da arrivare a sciogliere anche l’enorme complessità delle relazioni tra tutti gli elementi citati. Questa idea, una sorta di onniscienza della scienza del futuro, secondo me è altrettanto epistemologicamente fuorviante. Perché conduce a conclusioni che le persone possono ritenere vere già oggi anche se non hanno alcun fondamento scientifico sulla base delle conoscenze attuali. Non si può ritenere di poter prevedere quello che la scienza sarà in grado di scoprire in futuro, se oggi non siamo in grado di provarlo. E inferire le conclusioni della ricerca scientifica del futuro sulla base dei concetti della ricerca del passato non è sempre una pratica corretta.
Credo che gli scienziati dispongano dei migliori strumenti di conoscenza che l’umanità abbia finora sviluppato. Ma non possono andare oltre i limiti che il loro metodo impone. Quando lo fanno rischiano di dire cose come quelle che stanno costando la reputazione al grandissimo Watson.