La nuova edizione della Biennale Democrazia offre uno spaccato della preoccupazione diffusa sul rapporto tra rete e democrazia. Il programma della manifestazione che si tiene nei prossimi giorni a Torino presenta incontri dedicati al cyberbullismo e alla disinformazione sui media sociali, passa per discussioni sul diritto all’oblio e sugli algoritmi che decidono che cosa vediamo e che cosa non vediamo sui social network, per arrivare al tema filosofico – ma non troppo – del postumano. Nessun panel è dedicato alle consultazioni online, ai media civici, alle piattaforme per il dibattito deliberativo che pure hanno un impatto sulla vita democratica – anche in Italia – e che possono essere considerati una leva di modernizzazione del sistema. Un dibattito che sarebbe necessario visto che, intanto, i media digitali diventano sempre più importanti per le campagne elettorali, tanto che non manca chi sostiene che le prossime presidenziali americane saranno anche un braccio di ferro tra tecnologie.
Di certo, la montata critica che si osserva alla Biennale Democrazia sconta e denuncia i postumi di una sbornia che gli osservatori si sono presi negli anni scorsi, sull’onda dell’entusiasmo generato dai successi di alcuni nuovi movimenti politici nati in rete e dalle rivoluzioni organizzate con i social network. Una sbornia alla quale va però fatto seguire un progetto più che un mugugno: perché la rete non è fenomeno passeggero e il solo modo per interpretarla senza limitarsi a subirla è assumere un approccio costruttivo per renderla più compatibile con le strutture evolutive profonde della democrazia.
A questo proposito però la Biennale offre uno spunto importante: il dibattito dedicato alla Magna Charta per internet, con Philippe Aigrain, Juan Carlos De Martin e Stefano Rodotà darà conto dei progressi del ripensamento in chiave “costituzionale” degli equilibri tra i poteri nell’epoca di internet. L’Italia, anche grazie all’azione della Camera dei Deputati, partecipa da protagonista a un movimento internazionale del quale c’è enorme bisogno. Purché sia vissuto come l’abilitatore di una riprogettazione, non come il riflesso di una preoccupazione.
Articolo pubblicato su Nòva il 22 marzo 2015