A giudicare dalle ricerche di Guido Di Fraia, dell’Osservatorio Social media marketing allo Iulm, le imprese italiane non brillano per conoscenza e utilizzo della rete come strumento di sviluppo del business. Anzi, per i dati che Di Fraia ha raccolto e discusso al recente meeting della Ibc sono in media largamente insufficienti, salvo poche eccezioni. E la loro difficoltà di cogliere le opportunità offerte dalla rete è confermata dalle osservazioni di Netcomm sull’arretratezza delle imprese italiane sul terreno dell’ecommerce.
Il che peraltro si comprende nel quadro arcaico che emerge dal confronto della condizione italiana con quella degli altri paesi europei in base ai dati dello scoreboard dell’Agenda digitale. Il punto è che il contesto digitale non è un tema che riguarda il futuro: è già successo, le persone sono già online costantemente, in genere almeno per due o tre ore al giorno, come registra Jennifer Hubber di Ipsos, e il conseguente ambiente digitale è già una dimensione enorme e importante del business. Eppure gli italiani, forti utenti di Facebook, sembrano essere più digitali nelle loro relazioni sociali che nelle loro relazioni aziendali. Sono più consumatori che conoscitori attivi di piattaforme digitali. Forse questo si collega con ciò che pensa l’economista Enzo Rullani: le aziende italiane hanno saputo crescere nella dimensione della prossimità, sviluppata sulla base di relazioni sociali strette e informali, ma sembrano più in difficoltà quando devono conformarsi alle procedure richieste nei contesti codificati: nel doppio senso, informatico e istituzionale.
Impareranno ad adeguarsi. Come? Scrivono Joi Ito e Jeff Howe nel loro libro “Al passo col futuro” (Egea 2017), nel contesto competitivo attuale la disobbedienza è più forte del conformismo. Insomma: la competizione globale e digitale si gioca accettando i codici procedurali e disobbedendo sulle idee, mentre si perde disobbedendo ai codici e accettando il conformismo delle idee.
Articolo pubblicato su Nòva il 2 aprile 2017