In un canovaccio cinquecentesco per la commedia dell’arte, un marito accusato di aver ucciso la moglie viene processato. La sua linea di difesa è chiarissima: «Non sono stato io. È stato il coltello». Un po’ come se il presidente americano Harry Truman avesse detto: «Non sono stato io a radere al suolo Hiroshima. È stata la bomba». E un po’ come se oggi l’impresa che espelle manodopera dicesse: «Non sono io a deciderlo. È il robot». In realtà, la tecnologia è il suo progetto e contiene i valori di chi la progetta, di chi commissiona i progetti, di chi interpreta quei progetti e li mette in opera. La tecnologia suggerisce il suo utilizzo, ovviamente: e una persona che abbia soltanto un martello, come si dice, non vede altro che chiodi. La sua libertà umana, peraltro, si esprime attraverso la consapevolezza di essere sempre in grado di decidere se battere un chiodo o no. Di qui si arriva, tra l’altro, alla questione della responsabilità degli scienziati e dei tecnologi che generano le macchine e i computer. Se si dichiarano irresponsabili in quanto semplici operatori al servizio dei committenti, si dichiarano anche inconsapevoli del fatto che la loro progettualità è sempre un’interpretazione del possibile e le soluzioni che propongono sono il frutto di una loro scelta implicita. La responsabilità dunque è frutto della consapevolezza: la libertà è frutto della cultura. E l’educazione tecnica è alla fine dei conti alla radice di ciò che la tecnologia in realtà produce. Proprio per questo la conferenza Ieee Compsac che si è tenuta nei giorni scorsi al Politecnico di Torino è stata una tappa fondamentale nella liberazione della cultura tecnica dall’equivoco della sua irresponsabilità. Yochai Benkler, di Harvard, ha dato il senso di quanto la cultura tecnica e il bene comune siano argomenti convergenti e fondamentali per la progettazione di soluzioni che abbiano conseguenze umanamente sensate.
Articolo pubblicato su Nòva il 9 luglio 2017