La relazione tra la pubblicità e il pubblico è un problema di creatività, credibilità, complessità. Ma la sintesi è nell’autenticità. È una sorta di sottotesto, nel libro di Paolo Iabichino, chief creative officer di Ogilvy Italia: Scripta volant (Codice Edizioni, 2017). L’evoluzione del sistema mediatico, in effetti, non è una sfida soltanto per gli editori, ma anche per gli inserzionisti pubblicitari e per chi li aiuta a trovare la via dell’efficacia. I messaggi commerciali lottano per conquistare il tempo e l’attenzione, sempre più scarsi, delle persone, ma anche per stabilire quale contesto li valorizzi in termini di rilevanza. E non c’è dubbio che questo è il problema – o l’opportunità – della relazione tra la pubblicità e i giornali, cui Iabichino dedica un capitolo. Se i messaggi pubblicitari sono inviti operativi a comprare certi prodotti, allora sono contestualizzati meglio, online, nei flussi di azioni che il pubblico svolge cercando informazioni intorno a quegli stessi prodotti. Le piattaforme che aiutano il pubblico a districarsi nell’immensità della rete con i loro algoritmi e le loro interfacce pensate per questo sono difficilmente battibili. Ma quando si tratta di costruire un senso del brand da pubblicizzare, quando si tratta di far conoscere i valori intorno ai quali una marca si sviluppa e cerca di farsi riconoscere per dimostrare il proprio valore, i giornali tornano utili. Ma come si finanzia il giornalismo? Le soluzioni innovative, da questo punto di vista, sono molte. Alcune pericolose, come quando si traveste un contenuto commerciale sotto un’apparenza informativa. Ma si va sviluppando un’altra strategia delle marche: fanno del sincero giornalismo, con un metodo orientato a informare, per alimentare una cultura compatibile con il senso delle marche. Il brand journalism, per Iabichino, è un contributo al miglioramento della conoscenza su come stanno le cose. Interpreta intelligentemente un budget pubblicitario. Offre occasioni nuove a giornalisti e autori. Ma è un’ulteriore sfida per gli editori. Perché i pubblicitari lo fanno senza di loro. Se gli editori non innovano.
Articolo pubblicato su Nòva il 16 luglio 2017