Facebook si pensava come mera azienda tecnologica. Le sue scelte, però, unite al suo successo planetario, sono dense di conseguenze su alcune questioni sociali, dalla privacy all’algoritmo per filtrare le informazioni. Le polemiche sulle notizie false – di grande impatto politico – hanno accelerato un cambiamento. Che qualche editore apprezza.
Già. Un’azienda tecnologica pensa di offrire una tecnologia abilitante. E ritiene che l’uso che se ne fa sia responsabilità altrui. Ma la consapevolezza delle conseguenze di certe scelte tecnologiche, nel tempo emerge. E conduce a una pressione sociale che impone cambiamenti. Un po’ quello che è successo alle fabbriche inquinanti di sessant’anni fa: le emissioni erano considerate “esternalità negative” della produzione e non responsabilità delle aziende. Il rischio che alcune scelte tecniche di Facebook – operate per servire gli utenti che hanno bisogno di un filtro contro l’information overload – generino un sistema che incentiva l’aggregazione di utenti che si piacciono indipendentemente dalla qualità di quello che hanno da dire e favoriscano la confusione tra “fake news” e notizie documentate, rinnova il concetto di esternalità negative nel quadro dell’ecologia dei media. E abbassa il valore dell’esperienza complessiva di chi passa il tempo su Facebook. Il che, col tempo, diventa anche percepibile per gli utenti.
Ma per Facebook questo è un rischio da contrastare. Non basteranno legioni di correttori di “fake news” pagati da Facebook per limitare quel fenomeno. La strategia fondamentale è quella di chiamare in causa “terze parti” che facciano un lavoro di factchecking e che aumentino la qualità complessiva dell’informazione che circola sul social network. Gli editori tradizionali sono buoni canditati a svolgere questo ruolo. Purché abbiano di che campare. E l’annunciato servizio che Facebook offrirà agli editori che vogliano far pagare l’accesso alle loro notizie può essere letto anche come frutto della nuova attenzione che l’azienda fondata da Mark Zuckerberg sembra voler riservare a questa particolare categoria di clienti.
Il problema è se gli editori dovrebbero gioire di questo nuovo atteggiamento di Facebook o no. In realtà, la maggior parte del problema, gli editori se lo sono creati da soli, non comprendendo internet in tempo e lasciando che piattaforme come Google e Facebook diventassero padrone del traffico in rete, togliendo centralità alle aziende editoriali tradizionali. E allo stesso modo, il grande recupero strategico degli editori avverrà quando, avendo finalmente compreso la rete, come pare stia avvenendo, ne faranno un’interpretazione tale da valorizzare la qualità del metodo con il quale i loro giornalisti raccolgono e riportano l’informazione. Se tale qualità esiste davveo e se verrà veicolata con tecnologie innovative, adatte alla contemporaneità, anche i lettori ne riconosceranno il valore. E Facebook sarà, quello che è giusto sia: una piattaforma che ha un grande peso nell’ecologia dei media. Ma non una monocultura totalizzante.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore il 21 luglio 2017