L’impatto della tecnologia digitale nella manifattura è una sfida e un’opportunità per l’economia europea. Restata indietro nello sviluppo di piattaforme per la gestione dell’informazione nella prima ondata di innovazioni internettiane, l’Europa tenta la riscossa nella fase attuale, con il progetto di trasformare le fabbriche in altrettanti nodi di una rete produttiva, gestiti con la logica delle piattaforme, abitati da robot e intelligenze artificiali, arricchiti da sensori distribuiti ovunque e perennemente connessi in un’interpretazione manifatturiera dell’”internet delle cose”. Questo passaggio che si incrocia con la possibilità di generare prodotti rinnovati nei materiali dalle nano e biotecnologie, nelle funzioni dall’elettronica e persino nel marketing dalle neuroscienze, può consentire un rilancio dell’industria europea: a patto che sappia innovare alla velocità necessaria. Secondo il Financial Times, l’Europa si sta dotando degli strumenti per riuscirci, con quasi una ventina di miliardi destinati al venture capital e agli investimenti in startup – attività nella quale il Regno Unito è avanzato, la Germania ha recuperato, la Francia si è impegnata – e con la nuova attenzione al trasferimento tecnologico dai centri di ricerca e le università alle aziende, un processo nel quale la Germania eccelle anche grazie ai Fraunhofer, mentre il Regno Unito e l’Olanda, con soluzioni diverse come Catapult e Field Lab, stanno migliorando vistosamente. In tutto questo, l’Italia manca di mezzi, non di idee, come dimostra la fioritura di format e iniziative per l’open innovation. Certo, i mezzi ridicoli che sono messi a disposizione del venture capital e le limitate risorse che vanno alla ricerca costituiscono vincoli oggettivi. Le imprese italiane che pure riescono a innovare evidentemente trovano strade più furbe che ricche per abbeverarsi alle fonti della ricerca. Non basterà sempre. Emergeranno i territori che sanno fare open innovation guardando al bene comune.
Articolo pubblicato su Nòva il 13 dicembre 2017