Caro De Biase,
Sono convinto che il lavoro nel futuro dipenda da quello che programmano le imprese per sé e dalla politica economica del governo e, in parte minore, degli enti pubblici. Il problema è che le imprese programmano nel breve periodo e che il governo e gli altri enti si adattano alla situazione data.
Per un certo tempo mi sono occupato di gestione del mercato del lavoro. In questa funzione mi è capitato di coordinare una ricerca sulle previsioni di occupazione a sei mesi (quantità e qualità) fatte dalle imprese in una provincia del Veneto, cercando di creare un quadro riscontrabile con le assunzioni effettive per come risultavano nei sei mesi successivi alla ricerca negli uffici di collocamento della stessa provincia. Il risultato corrispondeva alle previsioni espresse per quanto riguardava il tipo di occupazione ricercata mentre la quantità delle assunzioni effettive risultava circa il doppio delle previsioni. L’unico motivo che può spiegare questo risultato era che le imprese, in assenza di una situazioni di crisi, avevano espresso una previsione a tre mesi e non a sei come era richiesto nel questionario. Cioè le imprese non pensano al lavoro futuro, ma a quello a breve e, se c’è bisogno di innovazione tecnologica, preferiscono utilizzare personale interno che, almeno, conosce l’azienda e la sua organizzazione.
Per la politica invece ci sarebbe bisogno di una visione del futuro sulla quale orientarsi per facilitare il suo avverarsi assumendo provvedimenti opportuni. Infatti tutti gli ultimi governi hanno individuato nel turismo il settore di sviluppo abbandonando di fatto una qualsiasi politica industriale, a parte forse l’azione dell’attuale ministro. Una scelta di adattamento alla situazione, fatta senza pensare minimamente alle conseguenze: distruzione del tessuto sociale (Venezia), distruzione del territorio a causa della cementificazione e dell’abbandono della manutenzione, precariato organico.
Con questo panorama desolante ci sarebbe da rifugiarsi in un lavoro futuro per come lo si immagina soggettivamente. Invece io resto abbastanza convinto che il futuro si può immaginare se si conosce e si fa riferimento al presente anche perché l’innovazione nelle imprese, dove si è verificata, non è stata un cambiamento improvviso, ma una utilizzazione di nuove risorse razionale e opportunamente utilizzate.
Il problema è che il presente è dato da un mercato del lavoro nel quale ci sono circa il 10% di lavoratori stranieri quasi tutti extracomunitari che non sembrano svolgere lavori di alta specializzazione mentre gli italiani cercano lavoro all’estero, in quota inferiore, o sono disoccupati. Mi sembra evidente che esiste un disallineamento tra le aspettative di lavoro degli italiani e quello che la struttura di produzione di beni e di servizi offre. Del resto la cosa appare chiara quando si fa notare che i lavoratori specializzati mancano, ma che le retribuzioni che sono offerte sono troppo basse: qui non funzionano neppure la leggi del mercato.
Forse sarebbe il caso di pensare che la composizione del lavoro in Italia è orientata verso posizioni di bassa qualità. Sarebbe interessante vedere se la recente fase di crisi ha cambiato qualcosa in questo senso per lo meno nelle regioni più sviluppate. In Veneto, nell’industria, ma non in altri settori, forse sta cambiando qualcosa, ma qui bisogna andare a spanne perché tutti si affannano a dire che la pressione fiscale è troppo alta e, magari a recuperare i distretti che ormai hanno perso la funzione di diffusione di innovazione.
Qualcosa potrebbe venire dalla scuola soprattutto se si comincia a pensare che essa, da quando ha assunto una dimensione di massa anche nelle superiori, è finalizzata alla comprensione della società in cui si vive e del lavoro in senso generale, anche se è orientata a una qualche specializzazione condizione indispensabile per favorire l’innovazione. Invece si pensa che “non serva niente” e che comunque dovrebbe essere orientata all’inserimento diretto nel lavoro. Per quale stravagante motivo un genitore o uno studente dovrebbero essere in grado di programmare il loro futuro a cinque anni se le aziende programmano a tre mesi? Da parte loro i governi si adattano anche in questo caso alla situazione e tendono a diminuire le spese senza occuparsi minimamente della costruzione di futuro che esiste al suo interno.
In conclusione il panorama è nel complesso difficile, ma questo non vuol dire che non si debba avere una visione del futuro su cui orientarsi e i piedi nella realtà facendo scelte che certamente non la realizzeranno ma che possono contenere anche piccoli elementi di avvicinamento.
Marcello Albanello
Caro Albanello
Il quadro che descrive è realistico. Probabilmente non tutte le imprese sono così poco orientate a programmare ma è vero che molte mancano di strategia perché si trovano nella condizione che qualcuno definisce “trappola della flessibilità”: imprese capaci di reagire velocemente ai cambiamenti del mercato proprio perché non si impegnano in una pianificazione troppo precisa ma lasciano ai clienti di stabilire la direzione strategica. Può aver funzionato in passato, quando le imprese controllavano perfettamente la loro tecnologia: ma in un contesto che richiede investimenti in tecnologie digitali sofisticate questo è sempre meno vero. E dalla flessibilità occorre passare alla adattabilità strategica. Se impareranno a farlo le imprese, anche i lavoratori dovranno assumere questa mentalità.
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 6 gennaio 2018