Ovviamente, la discussione intorno al superamento della divisione tra le due culture, umanistica e scientifica, è superata. La realtà parla chiaro: nel pieno della trasformazione digitale, genetica, neuroscientifica, non si comprende l’umanità senza comprenderne la tecnologia e non si progetta la tecnologia senza una profonda conoscenza delle dinamiche umane. Immersi in un ambiente arricchito in modo indelebile dalle tecnologie digitali, gli umani non vivono pienamente se non si dotano degli strumenti di accesso alla rete, se non ne comprendono la portata liberatoria e progettuale, se non sono consapevoli dell’influenza culturale dell’interfaccia. Non si comprende l’economia senza approfondirne il carattere contemporaneo: nell’economia della conoscenza, il valore si concentra sull’immateriale, che va dalla ricerca al design, passando dall’organizzazione logistica e relazionale che porta dal fornitore al cliente, e si sintetizza nel senso che si propone e si riconosce nei prodotti e nei servizi. Non si immagina il lavoro del futuro se non unificando la concezione delle conoscenze specialistiche tecniche che occorrono in ogni momento dello sviluppo del sistema produttivo con la consapevolezza delle competenze umane necessarie ad affrontarne il cambiamento ineluttabile: senso critico e capacità di fare gioco di squadra, approccio strategico e apertura empirica, e così via. Non si comprende l’innovazione senza l’esperienza della tecnologia che si vuole usare, senza un metodo per realizzare e testare prototipi, senza una visione e una narrazione della storia della quale quell’innovazione cambierà il corso. Non si capisce il design se lo si pensa solo come un metodo e non se ne riconosce il guizzo creativo: non si fa design di frontiera se non si conosce la tecnologia, il modello di business, l’apertura culturale, la visione del futuro, il contesto al quale il progetto è rivolto.
Ma tutto questo è chiaro. E infatti chi lavora prevalentemente nella tecnologia è gratificato da chi riconosce la sua generatività culturale e la sua capacità interpretativa; e d’altra parte chi lavora prevalentemente nella narrazione conquista credibilità solo se il suo approccio è fondato sul feedback tecnicamente elaborato dei fatti e se accetta di confrontarsi con le piattaforme nelle quali il suo racconto è destinato a vivere.
Ma non basta più. Apple non fa un passo senza studiare le conseguenze delle sue tecnologie in termini di privacy, di godibilità estetica, di facilità d’uso o di sostenibilità produttiva: il ceo Tim Cook ne ha fatto la cifra della sua leadership. D’altra parte, Google non intende per esempio presentare la sua innovazione nell’intelligenza artificiale senza accompagnarla con le specifiche etiche che sono impiegate nella sua progettazione: Sundar Pichai, ceo di Google, ha presentato i principi intorno ai quali si deve concepire la intelligenza artificiale nella sua azienda in un post per il suo blog del 7 giugno scorso, affermando che quella tecnologia deve essere concepita soltanto in modo da essere socialmente benefica, basata su algoritmi privi di pregiudizi, capace di rispettare la privacy, testata per la sicurezza, utile per il pubblico, scientificamente rigorosa, disponibile agli altri che adottino gli stessi principi. Insomma: la stessa open source diventa anche etica. Non c’è sviluppo filosofico senza conoscenza tecnologica. Non c’è sviluppo tecnologico senza consapevolezza filosofica.
Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 10 giugno 2018