Il digitale moltiplica le possibilità e migliora l’efficienza dei controlli: il diritto è chiamato a occuparsene perché di fronte al digitale l’umano scopre una nuova dimensione della libertà e del suo contrario. Antoine Garapon e Jean Lassègue percorrono questa micidiale ambiguità nel loro libro “Justice digitale” (Puf 2018). La cultura digitalizzata induce nella tentazione di pensare l’automazione della giustizia. Il che merita una discussione. Senza preconcetti.
L’idea non nasce dal nulla. E si presenta anche attraverso alcune applicazioni già presenti. Si può pensare, nel penale, all’utilizzo poliziesco dell’intelligenza artificiale, a partire ovviamente dalle indagini sui movimenti delle merci illegali, per arrivare alla repressione preventiva del crimine. E, nel civile, si può osservare già oggi il ricorso agli smart contract per accelerare la connessione tra gli accordi tra le parti e la loro implementazione, anche grazie alle forme di controllo condiviso assicurate dalla tecnologia blockchain.
Il digitale, in effetti, si basa su un linguaggio performativo: il software è il testo che “fa quello che dice”, come ricorda Cosimo Accoto dell’Mit; inoltre, quello che dice è essenzialmente regola, comando, ordinamento di dati. Il che ha portato il giurista americano Lawrence Lessig a scrivere che “il codice è codice”, un gioco di parole per dire che il software è legge.
Il punto, per Garapon e Lassègue, è che tutto questo avviene in modo astratto dal contesto di senso al quale si applica. Il codice si occupa della gestione dell’informazione, non del suo significato, come scriveva fin dalle origini dell’informatica Claude Shannon, nel suo paper del 1948. La dinamica simbolica nella quale si inscrive tutto il percorso di ricerca della giustizia, invece, non distingue tra il segno e il suo senso. E, per farla breve, non privilegia l’efficienza alla comprensione. Piuttosto cerca continuamente di connettere il testo giuridico e la realtà umana. O almeno a questo principio dovrebbe ispirarsi.
Certo, il fatto che molto spesso questo principio ispirativo appaia disatteso in un contesto tentato dal formalismo giuridico, dall’inefficienza e dal pregiudizio, può indurre nella tentazione di preferire l’automazione del diritto. Ma come si è visto grazie alla famosa inchiesta di ProPublica sull’intelligenza artificiale applicata negli Stati Uniti alla valutazione della potenziale recidività dei condannati – che favoriva automaticamente i bianchi e sfavoriva i neri – non c’è nessuna ragione per pensare che il computer sia oggettivo ed efficiente: in realtà, contiene tutti i pregiudizi e le valutazioni distorte di coloro che lo programmano e che progettano i suoi modi di funzionare. Come mostra Leandro Agrò nel suo recente libro “IoT designer” (FrancoAngeli 2018), il progetto – dell’interfaccia, ma non solo – connette il computer e il senso che gli umani vi riconoscono e vi generano: decretando il successo della elettronica realizzata, sia in termini di adozione che di conseguenze sociali ed economiche.
È tempo di superare la distanza tra l’informatica e il suo senso. Il digitale non è solo un generatore di efficienza. È soprattutto un moltiplicatore di possibilità. E questo è il suo senso sintetico: per questo, suggerisce simbolicamente sempre nuovi percorsi di libertà. A chi li sappia e li voglia leggere.
Articolo pubblicato su Nòva il 15 luglio 2018