Il concetto di “ricerca” è nel cuore sia della scienza che dell’arte. Arte e scienza sono entrambe percorsi di esplorazione nei territori della cultura che stanno oltre il limite del conosciuto. Un tempo, il confine tra l’arte e la scienza era dato per scontato. Oggi è messo in discussione. Del resto, già con il post-moderno, l’estetica era diventata anche sperimentazione, sconfinando in un ambito che era stato tipicamente indagato dell’epistemologia. Ma di certo la frammentazione culturale recente non ha ricreato definizioni disciplinari molto rigide, anzi, ha contribuito ad abbatterle ulteriormente. Ma, con l’immersione della vita quotidiana nel contesto digitale internettiano e con l’ulteriore accelerazione dell’innovazione tecnologica – ritmata dall’intelligenza artificiale, la robotica, la sensoristica, le biotecnologie, le nanotecnologie le neuroscienze- esplode la capacità della scienza di modificare la realtà e l’aspirazione dell’arte ad accelerare le mutazioni culturali.
Sicché, l’arte che ha smesso progressivamente di produrre opere per diventare creatrice di esperienze, come sosteneva Yves Michaud, sta trasformandosi ancora. È la genetica a generare una delle forme più audaci di questa trasformazione. La studia Mario Savini, autore de “L’arte transgenica. La vita è il medium” (Pisa University Press, 2018). Di che si tratta? L’artista brasiliano Eduardo Kac ha proposto «l’arte transgenica» come «una forma d’arte basata sull’uso di tecniche di ingegneria genetica per trasferire geni sintetici in un organismo o per trasferire materiale genetico naturale da una specie in un’altra, per creare esseri viventi unici». Non è un concetto molto diverso da quello che porta avanti uno scienziato-imprenditore come Craig Venter che in effetti ha prodotto cellule e organismi nuovi con tecniche genetiche. Quando lo ha annunciato, un giornalista gli ha chiesto se non pensasse che questo fosse un po’ come giocare il ruolo di Dio. E Venter rispose: «Chi dice che stiamo giocando?»
Sempre di creazione si tratta. E sempre, comunque, di esplorazione delle possibilità evolutive offerte dalla tecnologia. Con uno scopo fondamentale: imparare a comprendere in profondità, come dire, a digerire culturalmente le conseguenze della genetica. Le prospettive che si aprono con la possibilità di modificare tecnologicamente la vita, di “migliorare” le specie esistenti o di creare nuove forme di vita, trasformando in questo processo persino gli umani, sfidano ogni aspetto del pensiero e inducono qualcuno a risolvere tutto postulando un finale alienante: l’esordio di una nuova specie post-umana. Questa soluzione narrativa, peraltro, sottostima una circostanza che non dovrebbe sfuggire: la progettazione, la realizzazione e l’utilizzo inconsapevole e poco lungimirante di una tecnologia dalle potenzialità enormi è proprio una delle forme più tipiche del comportamento umano.
L’indagine artistica intorno a questioni di questo spessore può servire ad alimentare il percorso che conduce alla costruzione di un contesto consapevole per gli sviluppi della scienza. E ce n’è bisogno nell’Europa che da domani celebra la Biotech Week. Anche perché mentre la Corte europea si arroga il compito di definire la tecnica dell’editing genetico, il Crispr-Cas9, come una forma di modifica genetica degli organismi, l’arte e la scienza percorrono strade più libere e creative. È umano. Impedire la ricerca non evita l’esito post-umano, ma limita la conoscenza in modo disumano.
Articolo pubblicato su Nòva il 23 settembre 2018