Immersi nella realtà rigenerata con i media digitali, gli umani del XXI secolo sentono di attraversare una profonda mutazione, non soltanto tecnica o economica, ma anche antropologica se non addirittura anatomica. E non cessano di cercare strade per “digerire” culturalmente questa trasformazione. Di fronte a questa urgenza, le tentazioni non mancano: ci sono le scorciatoie tracciate dall’entusiasmo aprioristico per la tecnologia e quelle speculari influenzate dallo scetticismo banalizzante per ogni novità ambiziosa. L’esigenza di trovare un percorso equilibrato, culturalmente ricco e generativo, è necessaria. La ricerca artistica è una strada fondamentale. Perché l’estetica è l’indagine intorno alla percezione, che è la capacità di riconoscere senso nei dati sensoriali e che viene influenzata in modo profondo dalla struttura dei media, come ha ricordato nel suo recente intervento all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles Mauro Carbone, docente di estetica all’università Jean Moulin di Lione. Ebbene, quali conoscenze emergono dalla ricerca artistica intorno alla questione della trasformazione tecnologica?
Se è evidente che il digitale non è più una novità ma una realtà immersiva, che aumenta e insieme amputa le capacità percettive umane, ci si può aspettare che la ricerca artistica non sia interessata soltanto all’utilizzo delle tecnologie per generare opere, ma sia già passata al prossimo livello. Consapevoli del legame inestricabile tra digitale e sociale, come dice Simone Arcagni nel suo “L’occhio della macchina” (Einaudi 2018), interessati alla relazione simbiotica tra macchine e umani, alcuni artisti cominciano ad alimentare la cultura di domande e risposte epocali, anticipando la consapevolezza generalizzata ma nello stesso tempo stimolandola e influenzandola. E se ne vedono tracce affascinanti a Low Form, la mostra appena inaugurata al Maxxi di Roma e curata dal direttore Bartolomeo Pietromarchi.
C’è un filo che unisce i lavori di artisti come Carola Bonfili o Ian Cheng, Cheiney Thompson o Trevor Paglen e Jon Rafman. C’è un genietto digitale nelle loro opere, c’è un metodo tecnologico che le genera: può essere un’intelligenza artificiale che prende in pasto un insieme di immagini e ne produce una di sintesi, come in Paglen; può essere un algoritmo che gestisce grandi moli di dati e le visualizza, come in Thompson; può essere un motore usato per la creazione di videogiochi che diventa la regola di un ecosistema simulato nel quale si svolge una storia infinita, come in Cheng; può essere un ambiente virtuale che riflette un’esperienza letteraria come nel lavoro di Bonfili. Può forse apparire vagamente ambigua un’opera nella quale lo strumento può contribuire a decidere la forma emergente: ma agendo in questo modo questi artisti svelano la pluralità delle dimensioni umane della loro arte, collettiva e individuale nello stesso tempo. E poiché la macchina non si ferma mai, aggregando in rete le esperienze di tutti gli umani connessi, rende necessario lo sviluppo di consapevolezze nuove, parallele alla scoperta dell’esistenza di una nuova dimensione dell’inconscio collettivo, riflette Giovanna Melandri, presidente del Maxxi. Ma dal punto di vista artistico è un’esperienza che ricorda il surrealismo, dice Pietromarchi: in una nuova forma che, facendo tesoro della cultura della simulazione tipica del digitale, diventa “simrealismo”. Una sfida che non si può ignorare.
Articolo pubblicato su Nòva il 21 ottobre 2018